I POVERI li avrete sempre con voi: istruzioni per l'uso
Lo scandalo della SOLITUDINE E LA "RETE"
Servizio Sociale: ambiguità di una risposta un po’ artificiale ad un bisogno autentico

Di Dante Balbo



Molte delle persone che vengono a contatto con il nostro servizio sociale, hanno in comune l’esperienza profonda della solitudine.

A volte questa è espressa dalla fatica di combattere da soli nel labirinto dell’economia che cambia, oppure nel bisogno di parlare di mille cose che apparentemente non c’entrano con il problema, o ancora dal marchio di patologia psichica dichiarata come la cosa da curare.
Sempre di più ci troviamo confrontati con la povertà degli strumenti di comunicazione di uomini e donne che non riescono più a dirsi, a parlare di loro se non con le categorie che qualche servizio ha loro appiccicato.
Frasi come: "con chi ne parlo?" "Ho l’esaurimento" "ho avuto problemi di depressione" sono sempre più frequenti.
Noi allora, operatori del settore, ci siamo inventati due modi per sfuggire allo scandalo di una solitudine sempre più radicale e sempre più trasudante dalle mille difficoltà.
Uno lo usiamo fra di noi e si potrebbe riassumere in : "Bisogna potenziare la rete primaria per questo soggetto".
Il secondo lo adoperiamo con le persone e lo potremmo esprimere così: "Qui può trovare un luogo di ascolto, uno spazio dove elaborare i suoi problemi, una psicoterapia.".


Effetto consolatorio o via di fuga

Nel primo caso, parlare di soggetto ci illude che sia davvero il protagonista del suo percorso di recupero di identità e di fiducia in se stesso, mentre sappiamo bene che spesso dobbiamo decidere per lui, pensare per lui, suggerirgli strategie e strumenti.
L’idea di rete primaria, un tipico termine del linguaggio dell’intervento sociale, offre molti vantaggi.
La rete allude ad un oggetto che contiene, ha una sua struttura definita, si può dividere in nodi, vi si può immaginare un flusso di informazioni, sentimenti, relazioni.
Si parla di rete primaria, quando non si vogliono mettere di mezzo i servizi, che invece si chiamano reti secondarie.
Di fatto spesso la rete primaria siamo noi, perché se la signora che ci ha contattato perché non riesce a stare a casa da sola senza psicofarmaci, avesse avuto una rete primaria reale, non sarebbe venuta né da noi, né dal medico che le ha prescritto le pastiglie.
Nel secondo caso, quando offriamo uno spazio di ascolto o di psicoterapia, l’illusione consiste nel pensare che noi davvero possiamo sostituire le relazioni autentiche delle persone, creando di fatto una situazione di dipendenza che poi non possiamo, né dobbiamo mantenere, se vogliamo essere realmente efficaci.


Beneficio reale e risposta autentica

In questi stessi modi di pensare e di parlare, che abbiamo appena denunciati, sono contenute comunque delle intuizioni autentiche, che possiamo ritrovare e far crescere, se abbiamo il coraggio di riformare la nostra cultura.
E’ vero ad esempio che chi arriva da noi ha fatto un lungo cammino, nel quale ha perso capacità e strumenti per relazionarsi in modo sano e ha bisogno di uno spazio protetto per ricostruirsi.
Bene facciamo, a pensare alle reti primarie, quando noi vediamo una persona magari una volta ogni quindici giorni e dimentichiamo che gli altri quattordici li passa con qualcuno, magari pochi, magari litigando, ma comunque vivendo con loro e di loro.
Penso ad esempio ad un uomo anziano, che si occupa della moglie, poco più giovane di lui, malata di morbo di Altzeimer, con una costanza impressionante, che noi possiamo solo immaginare.


Un’altra prospettiva

Ci sono altre parole per dire le stesse cose, più ricche, più vicine alla nostra tradizione culturale, ma anche più difficili perché ci mettono in gioco.
L’idea di rete, primaria o secondaria che sia, deriva dalle scienze matematiche, dalla teoria dei sistemi, ha a che fare con i circuiti, con i flussi di energia, con le macchine.
Parole come casa, amicizia, comunità, appartenenza, compagnia, sono più legate alla persona, alla sua storia al suo vissuto.
Parole come luogo o spazio di ascolto, suggeriscono scenari da internet, modelli virtuali, stanze vuote.
Parole come alleanza, partecipazione, noi, sono più aderenti ad un vero cammino di riscoperta di sé.


Tre principi natalizi, per sviluppare la competenza di tutti all’intervento sociale

La conseguenza immediata di un cambio di prospettiva di questo genere è che, con i dovuti distinguo, ma che riguardano dettagli tecnici, la competenza per l’intervento sociale non è degli operatori del settore, ma di ogni uomo e donna che abbiano a cuore la loro felicità.
Infatti amicizia, alleanza, casa, comunità, reciprocità, sono chiavi di lettura per la storia di ciascuno di noi.
Realisticamente, noi però facciamo parte di una storia concreta, non possiamo sanare tutte le solitudini, né diventare amici di tutti, o alleati di ciascuno di quelli che incontriamo nella nostra vita.
Due criteri per capire dove si ferma il nostro intervento e fino a che punto possiamo fare promesse, ci vengono in aiuto.
Lo sguardo su noi stessi e sugli altri sarà autentico, quando verità e carità si incontreranno nella realtà.
Sembra un gioco di parole, per filosofi o pensatori di massime per cioccolatini, ma è scritto nella nostra tradizione, radicato nella storia che ogni Natale si rinnova.
In un vangelo apocrifo, Gesù non nasce esattamente da Maria, le compare a fianco, si materializza, come gli eroi di Star Trek. La conseguenza è che il racconto successivo è quello di un eroe, di un semi-dio che appena nato, fa miracoli, parla, e altre facezie simili.
Questo non è Gesù, ma un surrogato, il miraggio dell’illusione di avere per capo un super-eroe.
Nella grotta di Betlemme Verità e Carità si incontrano, nella realtà più cruda, semplice, indiscutibile, perché lì, da vedere.
Verità, perché Gesù non ha avuto paura di accogliere l’umanità nella carne, nella debolezza, nella fragilità di un bambino, nato in un oscuro angolo dell’impero Romano; Carità, perché Maria non ha cessato di credere che quello che nasceva dalle sue doglie di giovane partoriente, così uguale a tutti i figli di Israele era il Messia.


L’esito è guerra di trincea

Lo stesso accade quando ci incontriamo realmente con gli altri, sia che siamo operatori sociali, amici, parenti, o solo passanti.
La solitudine ci interpella sempre, scandalosa e umanamente irresolubile alla radice, se non riportata a quel mistero che è l’uomo svelato in pienezza.
Il risultato è stare sul ciglio dell’abisso, sul fronte di una guerra di trincea in cui ogni volta che cediamo all’illusione mentiamo a noi stessi e agli altri.
D’altra parte, la solitudine che non ci scandalizza più, ci rende gli esseri più soli della terra.