RUANDA, non solo colline

Di Marco Fantoni

La nostra responsabilità è quella di una presa di coscienza delle diverse situazioni e di valutare attentamente le richieste che ci sono sottoposte alfine che queste non arrechino un danno maggiore di quello che si vuole limitare

Una settimana in Ruanda, anche se a contatto con persone indigene o che da tempo vi lavorano, ti aiuta a capire solo una minima parte di quello che sta vivendo il paese, ma non ti permette di poter esprimere giudizi oggettivi. Ti puoi comunque fare un’idea di come vive una parte della popolazione, soprattutto nelle zone rurali e vedere le conseguenze lasciate dall’ultimo genocidio del 1994. È quanto abbiamo cercato di trasmettere in queste pagine dedicate appunto all’esperienza vissuta durante l’ultima settimana di giugno, grazie alla collaborazione di Maurizio Marmo della Caritas Italiana, che ha lavorato per un anno e mezzo a Kigali e dell’Abbé Emmanuel Twagirayezu, direttore della Caritas diocesana di Gikongoro con cui collaboriamo per progetti di sostegno all’infanzia, vedi numero della rivista precedente, che ci hanno guidato attraverso la Diocesi di Gikongoro e non solo.


Dopo il 1994

Il genocidio del 1994, avvenuto in pochi mesi dal 6 aprile, data in cui l’allora Presidente della Repubblica Juvenal Habyrimana, salito al potere durante un colpo di stato militare nel 1973, moriva durante un attentato aereo al suo ritorno a Kigali, ha lasciato segni evidenti nella popolazione e nell’economia del paese. Quasi un milione di morti e 500’000 rifugiati rientrati dallo Zaire e dalla Tanzania stanno ponendo problemi di diverso tipo.


La forza delle braccia

La mancanza di uno sviluppo ci è parso l’elemento emergente. In modo particolare nelle zone rurali, cioè gran parte della nazione, si nota come sia ancora e solo l’essere umano ad occuparsi della lavorazione della terra. È soprattutto la donna, che con la sola forza delle braccia e qualche rudimentale attrezzo è costretta ad adoperarsi per coltivare un piccolo fazzoletto di terra che possa garantirle il minimo vitale. Dove sono gli uomini? Ecco subito emergere uno dei problemi causati dal genocidio. Molte sono le donne che hanno perso i loro mariti durante i massacri e si sono ritrovate ad accudire i figli. Molti, troppi, sono ancora in carcere in attesa di giudizio dopo essere stati accusati di aver partecipato al genocidio.
Il lavoro della donna è molto pesante. La prima preoccupazione rimane la famiglia, dunque procurarsi il cibo quotidiano, in molti casi anche per il marito in carcere. La mancanza di sviluppo, di investimenti nel settore primario, di messa a disposizione del mezzo meccanico, o perlomeno di un mulo che tiri un carro è dunque l’elemento che non permette di sbloccare questa situazione. Le soluzioni stanno sicuramente a monte, a livello governativo, dove al momento di preparare il bilancio dello stato, la precedenza agli investimenti è diretta ad altri settori, e non da ultimo a livello di corruzione.

È soprattutto la donna, che con la sola forza delle braccia e qualche rudimentale attrezzo è costretta ad adoperarsi per coltivare un piccolo fazzoletto di terra che possa garantirle il minimo vitale

La situazione delle carceri

Sono circa 115’000 le persone in carcere accusate di aver partecipato al genocidio. Divise nei cachots comunali, piccoli locali adibiti a carceri e nelle prigioni centrali 82’000 circa. Qui le persone, molte da anni, attendono un giudizio, una decisione sul loro caso. Troviamo persone imprigionate solo con l’accusa di essere stati visti partecipare al genocidio. A volte le persone, sono arrestate per salvaguardare la loro stessa incolumità. Infatti nel villaggio dove vivono e dove sono stati accusati, possono essere perseguitati. Dell’accompagnamento a queste persone la Caritas Italiana sta svolgendo un lavoro prezioso e alcune Caritas diocesane ruandesi si occupano di fornire il cibo direttamente ai carcerati. Non dobbiamo pensare infatti alle condizioni delle prigioni da noi, ma ad affollamenti di persone in stabili che assomigliano più a pollai tanto è alta la concentrazione di persone per metro quadrato, 3-4 di media. Un esempio. La domenica abbiamo partecipato alla Messa nel carcere di Gikondo a Kigali di circa 7000 persone, dove nel piazzale interno erano presenti per la celebrazione 2/3000 persone. Coloro che non vi partecipavano erano letteralmente appollaiati su telai di legno (proprio come quelli delle galline) all’interno degli stabili. Questo dà una minima idea delle condizioni in cui si vive, dunque dal problema fisico a quello sanitario a quello alimentare.


Il futuro

Le conseguenze del genocidio, la situazione economica che non cresce, ultimamente qualcuno parla del rilancio del turismo con visite alle foreste dove si possono vedere i gorilla rimasti, il problema della sopravvivenza quotidiana, quello sanitario, gli uomini in carcere da anni, forza lavoro che manca alla nazione e la mancanza d’investimenti esteri fanno, attualmente, del Ruanda una nazione che marcia sul posto, dove solo l’aeroporto di Kigali è un polo d’attrazione per spostamenti, di persone e di cose nelle nazioni dei Grandi laghi, più attrattive dal profilo investimento-profitto.
Dobbiamo dunque anche interrogarci sul nostro ruolo, quello di organizzazione interpellata per sostenere dei progetti, se qui come altrove, questo possa essere un motivo per aumentare una "dipendenza" dall’estero, abituando dunque le persone ad attendere qualcosa da qualcuno, dunque quell’assistenzialismo che limita l’iniziativa personale. È quanto è emerso anche durante gli incontri con gli allievi delle scuole visitate, dove la richiesta di aiuto è pressante. D’altro lato in un paese, come altri, in condizioni difficili la reazione normale è quella del povero che chiede al ricco, co-responsabile della situazione del paese, di venirgli a sostegno. La nostra responsabilità è quella di una presa di coscienza delle diverse situazioni e di valutare attentamente le richieste che ci sono sottoposte alfine che queste non arrechino un danno maggiore di quello che si vuole limitare.