In Ticino i POVERI NON crescono come funghi

Di Dante Balbo



Abbiamo deciso di reagire, se pure con un certo imbarazzo, a pubblicazioni e dibattiti recenti che orientano l’opinione pubblica verso un quadro tragico della situazione economica Svizzera, sottolineato con cifre da far paura, e foto di povertà metropolitana.
Ne hanno parlato nello studio di Caritas Insieme TV Roby Noris, direttore di Caritas Ticino, Dante Balbo, responsabile del servizio sociale di Caritas Ticino e Paolo Pezzoli, vicedirettore degli Istituti Sociali del Comune di Lugano.

La nostra rubrica, normalmente dedicata a casi concreti, si sposta perciò, nell’ambito di un’analisi più globale della "povertà" in Svizzera, offrendovi uno stralcio dell’intervista andata in onda sabato 5 marzo 1999, in Caritas Insieme su Teleticino.

Balbo: Io direi che il concetto di imbarazzo è il più adatto ad esprimere un disagio reale nel leggere queste cifre apocalittiche. (Sul tavolo campeggiano alcuni giornali)
Dire che non ci sono situazioni di povertà equivale, da una parte ad affermare l’inutilità dei nostri servizi e dall’altra che c’è una frode gigantesca ai danni dello Stato o di chi si occupa dei cosiddetti poveri.
Tuttavia, parlare di povertà con lo stesso accento con cui si parla della povertà a Calcutta o in Africa è, secondo me, scandaloso.
La nostra esperienza di servizio sociale, ci dice che le misure da mobilitare per i poveri esistono e che quindi di fatto c’è un sistema di protezione dello Stato, che funziona e che permette a chiunque di non patire la fame.

Da noi ci sono persone che, come si dice, fanno fatica a tirare il carretto, a adempiere a tutte le loro necessità, ma assolutamente parlare di povertà, non è proprio il caso

Noris: Ecco, le misure ci sono. L’ente pubblico di fronte a questa provocazione cosa dice?

Pezzoli: Siamo nell’era della globalizzazione, tanto che confondiamo il povero di Calcutta con il povero di Lugano. Forse è vero che ai nostri tempi, per far passare un messaggio bisogna sempre drammatizzarlo e dire magari cose che vanno al di là della realtà.
Da noi ci sono persone che, come si dice, fanno fatica a tirare il carretto, a adempiere a tutte le loro necessità, ma assolutamente parlare di povertà, non è proprio il caso.
Per tornare alla questione se vi siano coperture legislative sufficienti, direi che il Cantone Ticino si è dotato anche di leggi innovative che non esistono in altri Cantoni.
Caso mai il problema è di coordinare tutti questi cappelli giuridici, che fanno da quadro legislativo alle diverse leggi.
La nostra costituzione non prevede che una persona possa morire di fame, non ne ha il diritto.
Il minimo vitale è garantito a tutti. Evidentemente la richiesta deve partire dal cittadino.
La maggior parte della nostra popolazione è informata, e ognuno di noi ha il diritto di andare a chiedere ciò che gli permetta di raggiungere questo reddito vitale, anche solo integrativo quello lavorativo.
È vero, infatti, che certi salari non sono sufficienti a poter sopravvivere in modo dignitoso. Penso al settore della ristorazione, del piccolo dettaglio, dove effettivamente ci sono dei salari troppo bassi che non permettono ad una persona, ad una famiglia, di avere quanto necessario per il sostentamento.

Noris: Nel nostro servizio sociale e nei programmi occupazionali incontriamo un migliaio di famiglie l’anno, prestando loro consulenza e appoggio. La nostra immagine è ben diversa da quella dei giornali che sfogliamo, i quali settimanalmente ci presentano situazioni apparentemente disperate. Inoltre, al di là dello scoop, sempre più si parla di povertà e di poveri. Qualcosa non funziona ...

Balbo: Le situazioni descritte sono vere, in gran parte dei casi, ma prima dell’intervento di un servizio, o quando questo è stato vanificato.
Non si può ad esempio immaginare che un intervento assistenziale sani situazioni di caos finanziario e di debiti precedenti.

Noris: Questi sono casi particolari, ma le situazioni ordinarie, come possono dare cifre come 710.000 poveri in Svizzera, frutto di studi, non di boutade giornalistica?

Pezzoli: Penso che questi studi considerino solo il reddito da attività lucrativa, senza tener conto delle rendite o dei sussidi statali.
Noi, fino ad oggi, non dovevamo tenere conto di eventuali sussidi integrativi: come se non esistessero.
Lo stato ha fatto una scelta, quella di sopperire a mancanze del settore privato, integrando con sussidi salari effettivamente sotto la soglia del reddito minimo.
Penso che sia un po’ una nostra forma mentale che, ogni tanto, non dico sempre, ritroviamo anche negli studi sulla povertà. Si parla unicamente di quelle che sono le proprie entrate, senza calcolare quelle rendite dirette o indirette che danno il comune, il Cantone o la Confederazione.
Se chiediamo a qualcuno quanto paga di Cassa Malati, ad esempio, ci dirà il premio intero, salvo poi scoprire che in parte, magari rilevante, è coperto da un sussidio cantonale.

Noris: Puoi farci qualche altro esempio, perché è difficile per la gente che non ha contatti con uffici come i nostri capire quanto stai dicendo.

Pezzoli: Quando ci troviamo di fronte ad una situazione, si deve dire, anzitutto, che questa tende ad emergere come la più grave incontrata, che necessita di aiuto urgente.
Recentemente mi è capitato di sentire un avvocato, abbastanza arrabbiato, che denunciava la situazione di un cittadino, a suo dire senza sostentamento, con 15 centesimi in tasca. Non era possibile, secondo lui, che, in uno Stato come il nostro, potessero esistere situazioni di questo genere.
Dopo una verifica minima, non c’era bisogno di chissà che, ci siamo accorti che questa persona beneficiava di quasi 4’000.-- franchi al mese. Certo, in quel momento aveva effettivamente 15 centesimi in tasca, ma i suoi problemi erano ben altri, da gestire magari in un servizio sociale, che poco avevano a che fare con le entrate effettive ricevute dal cantone o dalla confederazione. Ogni caso quindi deve essere attentamente ponderato.

Balbo: Il discorso è più complesso, perché altrimenti sembra che il problema sia quello di diventare particolarmente abili nello sfruttare le risorse esistenti. Vi sono situazioni in cui effettivamente è necessario un ridimensionamento del tenore di vita precedente. Se ad esempio uno dei coniugi perde il lavoro e termina le indennità di disoccupazione, ma l’altro ha uno stipendio che supera il minimo vitale, non è possibile ottenere aiuti dallo stato. Tuttavia quella famiglia è obbligata a rivedere il suo stile di vita e non è sempre facile convincerla che seppure le sue risorse si siano ridotte non possono essere compensate da un intervento pubblico.

Noris: Un tempo andare in disoccupazione era una specie di disonore, mentre oggi è fatto comune. Le prestazioni assistenziali sono cresciute in numero negli ultimi anni. C’è un mutamento di mentalità? Forse si sta entrando nell’idea che questi siano diritti acquisiti?

Pezzoli: Credo vi sia una progressiva assuefazione all’idea che si può arrivare a chiedere anche l’assistenza. Questo da un lato fa sì che si superi una convinzione ingiusta secondo cui una persona si debba sentire in colpa perché è obbligata a chiedere un aiuto al proprio comune, come accadeva spesso anni fa. Il rischio connesso con questi provvedimenti, disoccupazione in particolare, è che la persona sia deresponsabilizzata, quasi che in ogni modo qualcuno che ci pensa ci sia sempre ...

Balbo: La mia percezione è leggermente divergente, forse per la differenza di osservatorio. Una cosa è lavorare in un grosso comune, un’altra è incontrare gente che viene un po’ dappertutto.
La fatica di chiedere l’assistenza è ancora grande, vissuta con vergogna, accompagnata a volte da un atteggiamento scoraggiante da parte dei funzionari comunali.
Se però la richiesta di sussidi assistenziali è connessa con la possibilità di inserimento in un programma occupazionale, l’atteggiamento degli utenti è ben diverso.

La nostra costituzione non prevede che una persona possa morire di fame; il minimo vitale è garantito a tutti

Noris: Proprio questa misura a sostegno delle persone in assistenza è oggetto della nostra attenzione a Caritas Insieme. Noi pensiamo che questo costituisca un’evoluzione positiva nel segno della vera socialità, che sostituisce l’assistenzialismo con la promozione delle risorse della persona, per un suo possibile reinserimento. In questo siete ottimisti?

Gli studi sulla povertà considerano solo il reddito da attività lucrativa, senza tener conto delle rendite o dei sussidi statali

Pezzoli: La possibilità di inserire persone in assistenza in programmi occupazionali, in vigore da un anno, è a mio parere interessantissima, perché risponde alle esigenze, sia dei disoccupati di lunga durata, che ritrovano la possibilità di accesso al mercato del lavoro, sia per i giovani, che si trovano in assistenza prima ancora di aver cominciato seriamente a lavorare.
Lo sappiamo e lo diciamo da anni, che l’assistenza è disincentivante, soprattutto se a tempo indeterminato e senza alcun legame con un progetto di reinserimento.
Il comune di Lugano, per quello che può, cerca di attivarsi e in un anno è riuscito a fare una cinquantina di tentativi di reinserimento lavorativo. Evidentemente non tutti hanno funzionato, per motivi diversi e, in alcuni casi abbiamo dovuto rinunciare a questa possibilità. Tuttavia non sono poche le persone che, dopo un anno, o nel frattempo, sono riuscite a trovare una loro attività lavorativa nel posto di lavoro in cui è stato tentato l’inserimento, o all’esterno, riattivandosi, ritrovando ritmi, acquistando conoscenze professionali nuove.
Questa a mio avviso è la strada da battere, per superare la logica della monetizzazione dell’esclusione. E’ più facile pagare quelli che non riescono più ad inserirsi nel circuito lavorativo normale, pagarli perché facciano silenzio, perché siano contenti.
Questa soluzione invece mi sembra ottimale per un approccio all’esclusione che senza trascurare gli aspetti economici, punti all’inserimento globale della persona.

Balbo: Aggiungerei che quest’ottica di intervento, oltre a modificare il concetto di assistenza, promuove un diverso modo di concepire il lavoro, come produttore di beni e servizi per la comunità, piuttosto che realizzatore di profitto puramente monetario. La persona non si sente né è visto più come un parassita, mentre progressivamente si modifica, integrandosi, l’idea stessa di lavoro.