Beato MANFREDO SETTALA

Di Patrizia Solari



All'inizio dello scorso ottobre, gli abitanti di Riva San Vitale e dei paesi vicini hanno vissuto un momento particolare: l'apertura della teca dove riposano le spoglie del Beato Manfredo, per la necessità di un restauro specialistico delle stesse. L'ultima volta la teca fu aperta nel 1967, in occasione del 750.mo della morte del beato. Questo avvenimento ci dà l'occasione per rivolgere la nostra attenzione a questa "presenza in casa nostra", anticipando il suo ricordo nel calendario liturgico, che avviene il 27 gennaio. E per fare alcune considerazioni riguardo alla santità. Del beato Manfredo, vissuto tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, non si sa molto. Dice il sacerdote Davide Sesti, arciprete di Riva all'inizio del nostro secolo, in un suo studio sul culto pubblico del beato: "Ben pochi sono i particolari della vita del B. Manfredo, dei quali a noi è arrivata notizia. Si verifica di Lui ciò che si verifica di tanti altri Santi. Vissuti in epoche remote, i pochi documenti che non ci furono sottratti dall'ingiuria dei tempi o dall'incuria degli uomini, non ci permettono di dubitare della loro santità, cioè dell'eroismo delle loro virtù, ma neppure ci permettono, a meno che si voglia lavorare di fantasia, di descrivere dettagliatamente le singole epoche della loro vita, come è facile fare per Santi vissuti in epoche recenti." 1)

Ecco allora le notizie certe che ci sono pervenute. Il beato Manfredo appartiene alla nobile famiglia milanese dei Settala, dalla quale uscirono molti uomini illustri: un santo, Senatore, arcivescovo di Milano nel V secolo e celebrato dalla Chiesa ambrosiana il 28 maggio; un altro arcivescovo di Milano dal 1213 al 1230, Enrico; Lanfranco, abate di Chiaravalle, morto nel 1355; Francesco, vescovo di Vierbo, morto nel 1492. E poi ancora Cosmo, Gabriele e Carlo, rispettivamente vescovi di Ravelle, Avellino e Tortona, vissuti tra il XVI e il XVII secolo. E per finire, un altro beato, Lanfranco, primo generale dell'ordine degli Eremiti di S. Agostino, morto nel 1271. Manfredo però rinunciò alla posizione sociale di cui godeva con la sua famiglia per avviarsi al sacerdozio. Fu parroco, forse il primo, di Cuasso al Piano, parrocchia che allora comprendeva anche le attuali parrocchie di Cuasso al Monte, Brusin Piano, Porto Ceresio, Besano. "Dopo aver, per un numero indeterminabile di anni, governato santamente quella parrocchia, mosso da divina ispirazione volle completare il distacco dal mondo, già iniziato allorché aveva scelta la via del sacerdozio." Così si ritirò sul Monte S. Giorgio, che "poco lungi da Cuasso al Piano si erge, a modo di cuneo tra i due rami del Lago di Lugano (...), al tempo del B. Manfredo compreso tra i confini della parrocchia di Riva S. Vitale e (...) Meride" Manfredo trascorse la sua vita di eremita accanto alla chiesa dedicata a S. Giorgio. Morì nel 1217 e la tradizione, raccolta dagli storici dei secoli XVI e XVII, ci dice che le campane si misero a suonare da sole. Questo fatto fu interpretato da tutti come segno di un avvenimento straordinario e si pensò alla morte del Servo di Dio ritirato sul S. Giorgio. Gli abitanti delle terre circostanti accorsero sul monte e constatarono infatti la morte del "loro Maestro e consigliere". II secondo fatto tramandatoci è la contesa riguardo al luogo della sepoltura del beato. Vari paesi ne rivendicavano l'onore e "non essendo possibile conciliare gli animi discordi, fu deciso di rimettere il giudizio ai consigli della Divina Provvidenza. Collocarono perciò quel venerato corpo sopra una slitta (detta 'barozzo'), tirata da due buoi non ancora domati, disposti i contendenti di lasciare l'ambito tesoro a quel paese dove i buoi si fossero indirizzati. II magnifico Borgo di Riva S. Vitale fu la meta di quel pio, funebre e nello stesso tempo glorioso corteo." La salma fu collocata nella chiesa Collegiata e da quel momento fu, con il consenso dell'autorità ecclesiastica, ininterrottamente venerata, in modo profondo e "nei più svariati modi dai popoli circonvicini", ma in particolare dai fedeli di Riva S. Vitale. II trasporto mediante i buoi e l'annuncio della morte dato dal suono delle campane sono i due avvenimenti tramandati dagli storiografi e attraverso le parole di un antichissimo Inno, citato nel 1599, nel resoconto di una visita pastorale. 2)

Un altro avvenimento della vita del beato, che ci lascia una traccia della sua presenza, è citato in un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana, della seconda metà del '700. Trattando dei beati della Chiesa Mìlanese, l'autore, Giovanni Antonio Triulzìo, così racconta: " La sua fama di santità si diffondeva, e da molte persone era visitato, che da lui erano spiritualmente consolate. Gli abitanti di OIgiate, paese della Diocesi di Como, alquanto vicino a quella spelonca, essendo colpiti da epìdemica malattia che li portava alla morte subitaneamente, andarono supplichevoli a visitarlo. Egli promise loro la liberazione da quella epidemia, se avessero fatto voto a Dio di recarsi alla tomba di S. Gerardo, morto quaranta giorni prima a Monza. (...) Gli Olgiatesi fecero il voto, i'adempirono e furono liberati da quel morbo." Altri storiografi, dal 1500 ai giorni nostri, riportano nelle loro cronache o martirologi accenni o descrizioni della figura del beato. Ma quello che ha attirato la nostra attenzione, viste le poche notizie sulla vita, sono le testimonianze riguardo alle manifestazioni della devozione e dei culto del beato, che possiamo toccare con mano ancora oggi, e che rendono viva e presente la sua persona. La prima fra tutte è la consuetudine della distribuzione del pane, in occasione della festa del beato. "Per onorare il Beato Manfredo non pochi fedeli, specialmente di Riva, nei più svariati modi (per testamento, "brevi manu", pel tramite di sacerdoti, parenti, ecc.) erogavano in vita o in punto di morte parte della sostanza di loro proprietà (terreni, capitali) perché coi redditi degli stessi nella vigilia della sua festa, cioè il 26 Gennaio, si distribuisse, previa benedizione, alle famiglie di Riva, una certa quantità di pane. Si formò così l'opera pia che, nei documenti antichi e recenti, è denominata elemosina del pane del Beato Manfredo, o anche più brevemente elemosina del Beato Manfredo. L'amministrazìone della stessa fu sempre nelle mani del Patriziato (...)." A proposito dei destinatari, troviamo in una nota: "Il 14 Gennaio 1776 l'Assemblea Patriziale risolse di rendere partecipi d'allora in poi del pane del Beato i Padri Serviti e i Cappuccini dei Conventi di Mendrisio, i Padri Riformati del Convento degli Angeli di Lugano, l'Eremita del Santuario della B.V. del Castelletto sopra Melano e l'Ereminta del S. Giorgio"
.

La festa del Beato si celebra a Riva, come detto, il 27 gennaio (nel 1999, la festa esterna sarà la domenica 31 gennaio) 24.25.26 gennaio un triduo in preparazione della festa. "Dopo Riva la parrocchia in cui più profonda è la devozione al Beato Manfredo è Meride. I Meridesi da tempo immemorabile si recano in processione ogni anno al Lunedì di Pentecoste sul S. Giorgio in onore del Beato; il 27 Gennaio lo festeggiano colla Messa e coi Vesperi cantati, nonché recandosi in processione ad una vecchia Cappelletta." Queste parole venivano scritte nel 1917 e la tradizione è molto viva ancora ai nostri giorni. II culto del beato Manfredo fu sempre apportatore di grazie e benefici sia spirituali che materiali. "La tradizione orale e alcuni scritti ci hanno tramandato alcune di queste cose meravigliose: dell'orzo maturato pochi giorni dopo la seminagione nella frazione di Albio (territorio di Riva), in un campo denominato appunto perciò tuttora "campo del Beato" e che è proprietà della chiesa di Riva; dei pani moltiplicati in un forno di quella frazione: operati, l'uno e l'altro, questi miracoli dal Beato ancor vivente in favore di quei miserabili coloni; di ammalati (storpi, emoroisse, ecc.) che rivoltisi all'intercessione del Beato Manfredo, ottennero in modo meraviglioso la guarigione; di individui posti in pericoli gravissimi, da cui furono liberati ricorrendo al nostro Servo di Dio." Per concludere vogliamo fare un accenno alla questione della legittimità del culto pubblico del beato Manfredo, trattato dall'autore del testo dal quale abbiamo attinto le nostre notizie. "II dubbio sulla sua legittimità può sorgere, e in alcuni semi informati sulla dottrina della Chiesa è sorto, da non essere il nostro beato in possesso di un formale Decreto o sentenza di Beatificazione (...) quando è risaputo che, dal tempo di Urbano VIII specialmete, è proibito render atti di culto pubblico a persone defunte in fama di santità, ma non canonizzate o dichiarate Beate dalla Sede Apostolica." 3)
"Tutto ciò è vero: ma è pur vero che Urbano VIII non volle che fosse generalissima e senza eccezione alcuna quella proibizione." Così dichiara Urbano VIII nel Decreto del 13 marzo 1625: "(...) colle sopraddette disposizioni (interdicenti cioè il culto pubblico ai non Beatificati o Canonizzati formalmente dalla S. Sede) non vuole né intende in alcunché pregiudicare coloro che godono di culto pubblico o per comune consenso della Chiesa, o per corso immemorabile di tempo, o per gli scritti dei Padri e di uomini Santi, o da lunghissimo tempo sapendo e tollerandolo la Sede Apostolica o l'Ordinario." E queste sembrano proprio le eccezioni da attribuire al caso del nostro beato. Queste ultime riflessioni ci permettono di ricollegarci agli spunti accennati nell'introduzione e che trovate nei riquadri.



1) Davide Sesti, arciprete vicario foraneo di Riva S. Vitale, "il culto pubblico
al 8. Manfredo Settala Studio storico critico", Mendrisio 1917

2) È del genere di quelle `sequenze' con le quali, dall'anno Mille fino al Rinascimento, i conventi, i capitoli, ecc. davano maggior splendore ai loro patroni nella ricorrenza delle feste. Ma essendo queste composizioni poco raffinate quanto a sintassi, grammatica e metrica, furono, a quanto pare anche per questo motivo, quasi tutte abolite nella riforma posttridentina ad eccezione di cinque: il "Victimae Paschali", il "Lauda Sfon", il "Veni Sancte Spíritus", lo "Stabat Mater" e il "Dies Irae".

3) Ricordiamo che solo a partire dal secolo XI le canonizzazioni divennero papali, mentre in precedenza esse avvenivano a furor di popolo e in seguito il vescovo le regolamentava.

Un giornalìsta scriveva qualche mese fa su un nostro quotidiano, a proposito di madre Teresa di Calcutta, che se anche per lei si adottassero le procedure antiche, sarebbe già stata proclamata santa. Faceva poi tutta una serie di considerazioni sulla questione della pratica eroica delle virtù: ma cosa sono poi le virtù? ... E la Chiesa, non manca forse di fede o di fiducia se ritiene necessario un processo per dichiarare un santo? Non basta tutta una vita che parla? Non si rischia di vivisezionare questa vita e perdere di vista il nocciolo della questione? Ma, appunto, qual è il nocciolo della questione? Mi è sembrato che l'accento fosse messo sulla persona in sé, sul suo fare, piuttosto che sul segno che questa persona può essere. E allora mi è venuto in mente quel proverbio (cinese?) che dice: "Quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito." Mi è venuto in mente perché era come se l'articolista ci dicesse: "Guardate il dito!". Invece il santo è lì a indicarci, con la sua vita, la "luna". O meglio ... il "sole", il senso della sua e nostra vita. Mi occupo di santi e di beati da quando mi sono imbattuta in ritratti di santi che mi hanno dato soddisfazione e mi hanno fatto essere grata di appartenere all'esperienza della Chiesa, in compagnia di tutte quelle persone, di ogni ceto, età e provenienza, che hanno saputo e sanno vivere la loro vita come segno di qualcosa di più grande. Certo, poi ci sono le virtù eroiche e quant'altro, ma non come sforzo di coerenza morale, bensì come conseguenza dell'aver riconosciuto la forza dell'incontro con il Dio fatto uomo, presente realmente nel tempo e che riempie di senso il nostro quotidiano. Ho riscoperto tutte queste donne e uomini in carne ed ossa, dai più conosciuti ai meno appariscenti e ho desiderato che potessero essere persone da guardare anche per altri. E così, ogni due mesi, scrivo di santi e di beati su questa rivista. E più ne conosco, come si conosce un amico, uno che ci sta vicino, che ci accompagna, più capisco che i santi sono santi non perché sono stati bravissimi (come si rischiava di dedurre dall'articolo citato), ma perché hanno saputo esprimere con la loro vita la capacità di affidarsi, di seguire e di riconoscere di essere fatti da Dio. II resto è "solo" conseguenza. Se Madre Teresa potrà essere dichiarata santa, non lo sarà e non scandalizzatevi! prima di tutto per la montagna di bene che ha fatto, ma per il motivo per cui l'ha fatto "Per Qualcuno", come diceva lei e per come ha saputo indicarlo anche a noi.


Vi è una accezione della parola santità la quale si rifà ad una immagine di eccezionale che una aureola esprime. Eppure il santo non è né un mestiere di pochi, né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. (…) il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il santo è un vero uomo perché aderisce a Dio e quindi all'ideale per cui è stato costruito il suo cuore, e di cui è costituito il suo destino. (…). Eticamente tutto ciò significa "fare la volontà di Dio" dentro una umanità che rimane tale eppure diventa diversa.

(…) Un amore alla vita, creatura di Dio - dentro un abbraccio consapevole e leale delle sue condizioni esistenziali, disegno di Dio - caratterizza la figura del santo. Egli per affermare la propria vita appassionatamente non ha bisogno di dimenticare o di rinnegare nulla: tanto meno, starei per dire, la morte.

(…) In un certo senso ciò che brama il santo non è la santità come perfezione; la santità come incontro, appoggio, adesione, immedesimazione con Gesù Cristo. L'incontro con Cristo gli dà la certezza di una Presenza la cui forza lo libera dal male e rende la sua libertà capace di bene.

(…) il vero significato di santo nella tradizione cristiana originale è quello di colui che riconosce "la venuta nella carne" del Figlio di Dio, colui che è stato coinvolto nella Alleanza Nuova ed Eterna, e vive in responsabilità, "rispondendo" ad essa. È infatti all'interno di questa amicizia consapevole, di questo coinvolgimento esistenziale con la Presenza, la compagnia di Dio, che l'uomo acquista una personalità nuova: la personalità essendo determinata dal significato ultimo che l'io riconosce e dalla realizzata tensione nel perseguirlo.

(…) La santità risulta così esperienza di vera nuova radice culturale. Nel rapporto con il mistero della persona di Cristo s'accende, si svolge e si esalta una percezione di sé, della umanità, delle cose, degli avvenimenti, che tende, in modo più implicito o più consapevole, ma sempre appassionatamente, ad una valutazione e ad una concezione critica e sistematica, organica del reale.

(…) il vero problema della santità cristiana non è la scelta di un atteggiamento da avere nel mondo, ma il riconoscimento di Qualcosa che è accaduto e che ci si è donato, e ci muta giorno per giorno l'atteggiamenti, il volto.

(L.Giussani, "Alla ricerca del volto umano", Ed.Rizzoli 1995, pagg. 163 ss)