AFFIDO: IL LAVORO DI CRESCERE
L'ISTINTO MATERNO E L'ISTINTO FILIALE NON ESISTONO. TUTTO SI COSTRUISCE CON FATICA: È UN LAVORO

A cura di Dante Balb
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Con Carlo Doveri, direttore dell'Istituto Vanoni e genitore affidatario, parliamo di affido familiare. Ancora una volta emerge il fatto che genitori e figli non si nasce, ma si diventa. Se da un lato la progressiva complessità del nostro mondo spezza i legami intergenerazionali, questa stessa realtà ci costringe a ripensare il rapporto genitori figli come un dato non scontato ma da inventare nella quotidiana fatica di vivere. L'affido diventa allora un formidabile strumento di riflessione.

D: Quanto dura mediamente un affido?
R:
Non credo che ci siano dei tempi standard. Nella mia esperienza, sia personale, sia istituzionale, ritengo che i tempi siano piuttosto lunghi. È vero che nel mio campo professionale incontro dei bambini che hanno sovente delle situazioni piuttosto complesse, per cui io non posso parlare di tutti gli affidi, ma solamente di affidi di ragazzi con grosse problematiche personali oppure familiari alle spalle. Allora lì notiamo come l'affido duri nel tempo e sia combinato magari a passaggi all'interno delle istituzioni, a uscite, a collaborazione con la famiglia affidataria. Tutto questo porta all'allungamento dei tempi di rientro alla famiglia naturale, semmai questo avviene.

D: È stato recentemente affermato che le famiglie affidatarie mancano, o comunque ce ne sono sempre troppo poco rispetto al bisogno. Cioè ci sono dei bambini in istituto, altri in situazioni di difficoltà, ma non ci sono famiglie affidatarie. Questa, secondo te, è un'esigenza che dipende dal fatto che è poco conosciuta questa istituzione o è un problema culturale?
R:
Difficile rispondere a questa domanda anche perché, ripeto, il mio osservatorio è un osservatorio tutto sommato particolare. Quello che posso dire è che non sempre c'è una famiglia adeguata al bisogno di quel bambino, perché ogni caso è un caso a sé. Non esiste l'affido standard. Quindi è difficile fare un discorso di medie, di statistiche, di distribuzione sulla popolazione ticinese. Non so se esistono poche famiglie affidatarie, probabilmente è vero che ne mancano, ma non credo che sia un problema di informazione. Forse è un problema più generale di cultura, di abitudine a pensare la famiglia come possibile luogo di accoglienza di altri che non siano immediatamente i membri vicinissimi.

D: L'affido, secondo me, è un lavoro, è un lavoro nel senso della costruzione di un rapporto particolare. Quali sono i problemi più seri rispetto a questo lavoro?
R:
I problemi più seri sono anche quelli che normalmente sono i più citati, quindi il rapporto con la famiglia d'origine del bambino, la gestione del conflitto che si crea spesso tra la famiglia d'origine e la famiglia affidataria, sulla gestione, sull'occuparsi del bambino in un certo modo piuttosto che in un altro, sui tempi, sui modi. Spesso piccoli fatti diventano motivi per grandi scontri, per grandi litigi.

D: Oggi si parla tanto della famiglia in crisi, della coppia in crisi, del matrimonio in crisi, ecc. Voglio porti la classica domanda da 10 milioni che di solito si sente alla televisione. La genitorialità, cioè l'essere genitori, secondo te, è in crisi tanto quanto il resto della famiglia?
R:
Domanda da 10 milioni. Sì, è in crisi, ma la domanda da 100 milioni è un'altra: è mai stata fuori dalla crisi? lo non so dire se oggi sia più critico il rapporto genitori figli, rispetto alla generazione precedente. Di sicuro c'è una maggior complessità che la famiglia deve gestire, c'è una società che preme maggiormente, ci sono una serie di sostegni reciproci che sono venuti meno. Non credo che siamo divenuti più "cattivi". Quello che è cambiato è che la struttura sociale di 50 anni fa costringeva a una convivenza stretta. Oggi non siamo più costretti a questo. Quindi se i legami si sono rotti in parte fra le generazioni è anche perché oggi esiste una maggior possibilità di indipendenza. Oggi diventa quindi evidente che il rapporto fra le generazioni, il rapporto fra genitori figli, il rapporto con gli altri, è un lavoro, come dicevi prima. Non è un dato naturale, un dato di fatto al quale basta non opporsi perché avvenga.

D: L'idea che uno è figlio della mamma che l'ha tenuto in utero è comunque sempre ben presente. Questo è sempre pensato come il legame indistruttibile, insostituibile. Come concili questo discorso con quello della genitorialità come lavoro?
R:
Il rapporto istintivo, credo che sia uno dei tanti miti, intrattenuti tra l'altro da più agenzie sociali. L'istinto materno, l'istinto paterno, l'istinto filiale, "volgarizzando" la voce del sangue, che è un concetto un poco più vecchio, ma vuol dire istinto. Allora istinto vuol dire fondamentalmente che non c'è bisogno di lavorare, che tutto è dato e che quindi il rapporto genitori figli fa parte di quelle cose che sono, come dire, necessitate. Mentre io ritengo che non esista l'istinto né materno, né paterno, né filiale ma che il rapporto madre figlio, padre figlio è una costruzione. Una costruzione, un lavoro reciproco, un aiuto reciproco, ma che né il sangue, né i geni, né la cultura, né la società possono rendere necessario. Tanto è vero che stiamo parlando di affido. Non bisogna essere teorici, basta avere gli occhi e le orecchie. D'altra parte io dirigo un'istituzione nella quale ci sono dei bambini figli "normali" dei loro genitori, taluni dei quali hanno notevoli difficoltà di rapporto con i propri parenti.

D: Questo però non è in contraddizione con quanto scritto nella convenzione dei diritti del bambino? Lì troviamo scritto che un bambino ha bisogno dei genitori, ha bisogno di una famiglia, anzi ha diritto ad avere una famiglia
R:
L'espressione "diritto" è vuota in questo caso, giuridicamente vuota. L'espressione "bisogno" è più convincente, cioè un piccolo ha bisogno per crescere di un grande che con lui ci sappia fare. Esperienza di tutti ed è esperienza evidente. Quindi un bambino ha bisogno degli adulti, ma degli adulti sani per crescere.

D: Quindi il tuo discorso sulla mancanza dell'istinto per i genitori non è un invito alla deresponsabilizzazione
R:
No, fondamentalmente è una deresponsabilizzazione credere che esista l'istinto, perché evidentemente se mi manca, non posso più far nulla. Quindi non ho responsabilità in questo.

D: Quindi dentro questo contesto, l'affido che significato ha?
R:
Io direi che l'affido, così come l'adozione, ma anche l'istituto, oppure la nonna o una persona che abita vicino, sono tutte delle opportunità perché il lavoro del crescere sia intrapreso e sostenuto con qualcuno che ha uno sguardo benevolo su di me. Nel caso in cui ci siano dei problemi con la famiglia naturale, sono anche occasioni affinché si abbia uno sguardo benevolo e di aiuto anche nei confronti di quel papà, di quella mamma che in quel momento sono in difficoltà o che sono sempre stati in difficoltà, come spesso accade. Quindi l'affido come le altre forme appena descritte non si devono trasformare in un'operazione di giudizio che annichilisce l'altra famiglia. Direi che una delle caratteristiche della famiglia affidataria è proprio quella di astenersi dal giudizio di condanna della famiglia d'origine, ma anche dal giudizio di assoluzione di sé in quanto fondamentalmente buoni, giusti, capaci, ecc. Nonostante ci sia sovente un fondo di leggera ostilità dalle due parti sarebbe sbagliato negarlo è necessario lavorare anche questo.