L'INFANZIA VA IN GUERRA

Di Marco Fantoni



All'inizio del mese di febbraio, si è svolto nella sede dell'ONU a Ginevra, un incontro tra i delegati di diversi Paesi con l'obiettivo di eliminare il fenomeno dei baby soldati. La Convenzione sui diritti dell'infanzia, del 1989, approvata da 191 Paesi (eccetto USA e Somalia) fissa oggi a 15 anni l'età minima per l'arruolamento (art. 38). La volontà era quella di portarla a 18 anni, ma il veto statunitense, seguito da altri Stati, non lo ha permesso, limitando ai 17 anni l'età minima. Evidentemente c'è chi ritiene che a questa età si è sufficientemente preparati per "giocare"alla guerra, quella vera. Naturalmente sono prese di posizione sulla carta, in quanto è noto a tutti che questi limiti come in altri casi, vedi sfruttamento dell'infanzia a scopi lavorativi, non sono rispettati. Premesso che l'obiettivo principale è quello di eliminare tutto quello che ha a che vedere con le guerre, queste sono regole che comunque devono essere fissate, regole comuni che i vari Paesi debbono rispettare come principi fondamentali legati alla dignità dell'uomo. In caso contrario si tratta di legalizzazione di arruolamento di bambini per scopi bellici.

Nel 1996 un gruppo di lavoro dell'Alleanza Internazionale Save the Children ha realizzato, sotto la guida della signora Graqa Machel, ex ministro dell'educazione del Mozambico ed esperta dell'ex Segretario generale dell'ONU Boutros Boutros Ghali, "Lo studio dell'impatto dei conflitti armati sull'infanzia" in collaborazione con psichiatri, psicologi ed operatori sociali dell'infanzia. Dallo stesso emerge come due milioni di bambini sono morti nel corso dei diversi conflitti durante gli ultimi 10 anni. Una parte a seguito di offensive generiche contro i civili, mentre altri tramite veri e propri genocidi. Inoltre 15 milioni risultano essere gravemente feriti, aver subito menomazioni permanenti o traumatizzati. Altri hanno sofferto degli effetti di violenze sessuali, della fame e delle malattie. Altri ancora sfruttati come combattenti. Dal rapporto emerge dunque la prova che l'infanzia ha effettivamente un ruolo nelle guerre, contrariamente a quanto si cerca di far credere, in modo particolare da quegli Stati dove i bambini sono considerati una fonte di sfruttamento. Le conseguenze sono dunque molteplici. In modo particolare nelle guerre civili, dove tutto è distrutto, dalle comunità alle abitazioni, i primi ad essere colpiti sono i bambini. Sono privati dell'educazione e delle cure sanitarie minime per il loro sviluppo a causa della mancanza di fondi, utilizzati per gli investimenti militari. Vengono dunque violati i più elementari diritti del bambino. Pure quando le popolazioni cercano rifugio in Paesi confinanti con quelli in cui sono in atto combattimenti, non ci sono sicurezze e sono particolarmente vulnerabili giovani ragazze o ragazzi non accompagnati, ammalati o disabili. Le conseguenze psicologiche non tardano a farsi sentire, subentrano allora i rifiuti di contatti, di voglia di giocare e di ridere o si resta ossessionati da stereotipati giochi di guerra. Situazioni che spesso portano al suicidio. Le soluzioni per limitare questo tipo di problemi, non sono effettivamente facili, e chi opera dall'esterno deve tener conto di molti fattori. In modo particolare la conoscenza delle condizioni dei bambini, gli aspetti umani e culturali in cui essi vivono. E appunto per questi fattori si cerca di coinvolgere il più possibile, persone indigene, che conoscono meglio di tutti questi problemi. L'importanza di trovare una famiglia per i bambini che l'hanno perduta, riveste, sempre secondo lo studio, un fattore decisivo per la crescita. Il ritrovare una "routine" familiare contribuisce a stabilizzare aspetti psicologici che porterebbero, altrimenti, alle conseguenze descritte in precedenza.

In situazioni d'emergenza capitano pure interventi inappropriati, causati da insostenibili usi delle risorse, causando ulteriori problemi psicologici. Come già detto in precedenza su questa rivista, a proposito di lavoro minorile, la prevenzione da parte di tutta la società civile ha una sua responsabilità determinante, tramite i vari organismi internazionali, alfine di riuscire a far pressione su quei governi che reclutano bambine e bambini per scopi di guerra. A volte purtroppo l'impotenza davanti a certe situazioni può scoraggiare tutti noi, ma resta comunque l'importanza della presa di coscienza di situazioni lontane dalle nostre che ci coinvolgono nelle responsabilità di esseri umani.

(Fonti: UNICEF/Save the Children)