Ruanda specchio di tutta l'umanità
Le telecamere sono spente ma si continua a morire

Di Marco Fantoni




Abbiamo incontrato Paolo Cereda, responsabile per la Caritas Italiana dei progetti nella Regione dei Grandi Laghi in Africa. Cereda, appena rientrato dal Ruanda, ci racconta l'attuale situazione e come ci si è arrivati, le responsabilità di tutta l'umanità, la situazione della Chiesa, il ruolo dell'informazione, l'importanza dell'educazione e la speranza del popolo ruandese. L'intervista è stata ripresa dalla trasmissione televisiva Caritas Insieme.

D: Cosa sta succedendo attualmente in Ruanda?
R:
Tutti noi abbiamo sentito parlare del Ruanda, in maniera forse eccessiva, nel 1994 durante il genocidio e durante il colera. Se vogliamo le immagini del Ruanda che sono giunte nelle nostre case nel 1994 erano quelle di rifugiati che morivano di colera a Goma nello Zaire, fuori dal Ruanda. Poi sono riaffiorate ancora alla fine del 1996 inizi 1997, ancora immagini dei rifugiati per il rientro massiccio, da una parte dallo Zaire per cause di guerra, per la rivoluzione che ha portato alla caduta di Mobutu, dall'altra, dalla Tanzania sotto l'influsso dei manganelli della polizia e dell'esercito tanzano dove c'è stato pure un rientro massiccio di quasi un milione e mezzo di persone. Allora si sono riaccese per un attimo le telecamere su questo angolo di Africa e abbiamo rivisto, in senso inverso, piedi che rientravano. Però, fra queste immagini e quelle del 1994, queste immagini e la situazione attuale, c'è un buco nero d'informazione quindi di visibilità, di memoria collettiva che in qualche modo andrebbe colmato.


D: Un'informazione che a quanto pare negli ultimi tempi è un po' latente, però mi sembra che si è ripiombati in quella che era la situazione del 1994.
R:
Paradossalmente mi pare che oggi in Ruanda si stiano ripercorrendo delle tappe storiche, dei fatti che dal 1990 al 1994 hanno portato il Paese ad un genocidio e ad una situazione di violenza veramente quasi unica nel mondo. Queste tappe si stanno ripercorrendo in maniera simmetrica nel disinteresse della comunità internazionale. Il mondo guarda dall'altra parte. Però nel 1998 rispetto al 1994, nessuno può più dire, non lo sapevamo.

D: Proprio l'anno scorso il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Cornelio Sommaruga, aveva fatto un'autocritica dicendo che la comunità internazionale aveva fallito nei confronti della situazione nella regione dei Grandi Laghi. Tutti siamo coinvolti, come enti internazionali, ma anche come persone singole verso la situazione dell'Africa in generale, del Ruanda in particolare come responsabilità personale. Condividi questa analisi?
R:
lo credo che il Ruanda, come altri fatti non appartenga solo alla storia africana, alla storia del Ruanda, ai ruandesi, ma appartenga un po' a tutta l'umanità, come riflessione per quello che è accaduto, come analisi su come si poteva evitare e sulla prevenzione di perché non accada mai più. Sicuramente in Ruanda, a livello locale, a livello regionale ed anche a livello internazionale hanno giocato due gravi crisi che a mio avviso sono un po' alla base di queste catastrofi umanitarie o dei conflitti moderni e sono una crisi morale dell'individuo e una crisi dello Stato che, quindi, non ha più una funzione cautelativa, di servizio e quindi di difesa dei diritti dei cittadini, ma diventa un pezzo di potere da conquistare e da difendere a qualunque costo. In Ruanda questo costo della difesa di un potere si è sommato ad una serie di problemi legati alla povertà, alla miseria, alla scarsità di terra, che hanno portato sottoterra quasi un milione di ruandesi in poche settimane, il che vuol dire un settimo della popolazione del Ruanda. Ecco queste sono un po' le cifre brutali che però non devono trasformarsi in statistica. Un giornalista diceva a proposito della Somalia: "La morte di un uomo è una tragedia, un milione di morti è statistica". Penso che per noi, per organizzazioni come la Caritas, un milione di morti sia un milione di tragedie, perché dietro ogni uomo c'è una storia, una famiglia, un tessuto sociale che in qualche modo davanti ad un lutto viene lacerato completamente. Credo che oggi i ruandesi, uomini, donne, bambini, militari, vescovi, contadini, commercianti non siano più gli stessi ruandesi del 1994, perché sono passati attraverso una prova di sofferenza, sia le vittime ed i loro famigliari, ma anche i carnefici, che in qualche modo li ha trasformati per sempre. Ed è con questa realtà, sociale, umana, politica e culturale che la comunità internazionale, le organizzazioni umanitarie hanno a che fare.

D: Organizzazioni umanitarie che, dal 1994 sono affluite in massa per i bisogni urgenti del Ruanda. La Caritas Italiana ha creato dei progetti che stanno continuando tutt'ora, basati sull'aiuto immediato e sullo sviluppo della persona. Ci puoi dire come state lavorando attualmente?
R:
Sicuramente la Caritas, non solo quella italiana, non è una ONG, non è un'organizzazione umanitaria o assistenziale. È un organismo pastorale, un organismo di Chiesa e questo non è indifferente, perché l'aiuto che si porta ad una Chiesa sorella, ad una comunità, società in difficoltà, parte da questo presupposto, parte dal presupposto di un rispetto nel progetto di vita che questa comunità, una parrocchia, una città, un campo profughi ha, e quindi nell'accompagnamento e nel sostegno perché questo progetto si realizzi. Questo progetto esiste anche, l'abbiamo constatato di persona nelle situazioni più disumane, nei campi profughi di Goma, nelle prigioni sovraffollate ruandesi. Gli uomini, le donne, i bambini hanno un loro progetto individuale, famigliare, collettivo di vita di speranza, di resistenza al male. Allora è questo progetto, questi micro progetti che noi in qualche modo dobbiamo sostenere, altrimenti si rischia che diamo per scontato anche la buona fede. L'aiuto umanitario oggi può, non solo non aiutare, ma anche fare danno fino ad uccidere.

D: In queste situazioni i più colpiti, i più deboli sono normalmente le donne ed i bambini. Siamo stati sollecitati per questo incontro anche da un sacerdote della diocesi di Gikongoro che ci ha proposto un progetto a sostegno dei giovani, dell'educazione. Uno dei problemi maggiori oltre quelli immediati, attualmente, in Ruanda è quello dell'educazione. In che direzione va questa educazione, anche in prospettiva di un futuro nel mondo del lavoro?
R:
Sicuramente uno dei frutti più terribili del Ruanda è stato l'annullamento di generazioni di bambini. Bambini che hanno visto uccidere i loro genitori, i loro amici, a volte partecipato ai massacri, a volte essi stessi hanno preso le armi sotto l'effetto di costrizione psicologica per uccidere. Questi bimbi, e sono centinaia di migliaia, bimbi che sono passati attraverso questa esperienza, a questi bambini è stata sottratta l'infanzia. Io credo che non bisogna permettere che sia rubato loro anche il futuro. In questo senso la formazione, l'educazione, nella sua forma più vasta, la scuola, ma anche l'educazione, la socializzazione attraverso per esempio l'agricoltura, la formazione professionale, sia la sola strada, l'unica strada perché non avvenga che a questi bambini sia tolto anche il futuro, oltre l'infanzia. Per cui credo che ogni progetto serio, di sostegno alla formazione, all'educazione, sia un gradino verso la riconciliazione, verso la coabitazione, quindi verso il futuro. Anche noi stessi come Caritas, stiamo sostenendo diversi progetti di Caritas diocesane, associazioni locali che lavorano coi bambini, in particolare con le categorie più vulnerabili dei bambini. I bambini di strada, un fenomeno quasi sconosciuto prima della guerra del 1994 in Ruanda, oggi uno dei grossi problemi di ordine pubblico delle autorità cittadine, per esempio di Kigali. A Kigali, la capitale, si registrano dai due ai quattromila bambini di strada. L'aleatorietà, l'incertezza della cifra è proprio perché ogni giorno a causa di una situazione pesante e persistente di guerra e di violenza ancora oggi 1998, nel Paese, fa scattare questo fenomeno. I bambini che vengono espulsi, molti orfani, molti che vengono espulsi dalla famiglia a causa della povertà, oppure che vengono mandati a mendicare e diventano il reddito famigliare. Accanto a questo si sta sviluppando in maniera preoccupante il fenomeno delle bambine di strada, mondo legato soprattutto alla prostituzione. Quindi intervenire in questo modo, cercando di strappare i bambini alla strada è abbastanza aleatorio, però di rendere la strada un luogo comune sicuro, un luogo di vita, invece di un luogo di paura e di morte, va nello spirito dei progetti che stiamo sostenendo appunto a Kigali e Butare, attraverso, anche con la presenza di operatori della Caritas italiana sul campo.

D: Ruanda, Paese a maggioranza cattolica. La Chiesa è stata penalizzata, anche lei come tutta la popolazione, ultimamente abbiamo sentito delle uccisioni di suore, di un francescano croato. Come si sta muovendo in questa situazione?
R:
Direi che la Chiesa ruandese, la Chiesa locale e missionaria sono, prima di essere Chiesa, ruandesi. Quello che è successo in Ruanda nel 1994, e da allora ad oggi anche questa paura, questa disinformazione, questi massacri continui che avvengono, hanno toccato, non solo i cristiani ed i fedeli ma anche i preti, le suore, i vescovi anch'essi nella loro carne, sia chi personalmente, chi attraverso la sofferenza dei propri famigliari. Quindi è una Chiesa che comunque ha dato prova nella sua globalità, di grossa resistenza, di non resa al male, al genocidio, ma di cammino verso una speranza.

D: Ne abbiamo già accennato in precedenza, il ruolo che hanno avuto i mezzi di comunicazione, dove nel 1994 erano tutti presenti ed ora marginalmente. Come reagisce la popolazione locale ad un fenomeno di questo genere?
R:
Diciamo che l'informazione, oltre che la paura e la povertà è uno dei grossi problemi del Ruanda, lo è stato e lo è tutt'oggi. L'informazione a tutti i livelli, quella internazionale che dà un'immagine e dà un monitoraggio di quello che sta succedendo che è completamente assente, si accende a sprazzi solo su grosse tragedie, su grossi numeri e quindi dà un'immagine falsata della realtà, ma anche l'informazione interna. La radio in particolare, che in Ruanda è il mezzo più diffuso ed ascoltato da tutti e che è stata una degli artefici dei mezzi di preparazione più sofisticati del genocidio perché in Ruanda manca nei mass media una indipendenza ed una libertà che dà loro un'autorità morale. Sono piuttosto nella mente di strumenti di propaganda. Il genocidio in Ruanda nonostante sia stato effettuato con mezzi a prima vista primitivi, i bastoni, le mazze, i maceti, è stato, se si studiano i meccanismi e le dinamiche di preparazione, un genocidio moderno, molto sofisticato, dove la manipolazione delle coscienze e la preparazione psicologica all'assassinio di massa è stato un lavoro scientifico fatto da esperti della comunicazione attraverso la tristemente famosa Radio Televisione des Milles Coliines, i cui responsabili sono oggi citati davanti al Tribunale penale internazionale di Aruge, come menti ed artefici del genocidio

D: Davanti ad una situazione del genere, ad una situazione che hai così descritto, che speranza ha il popolo ruandese, il popolo in generale della Regione dei Grandi Laghi?
R:
Nonostante il clima pesante, molti sono i segnali di speranza, soprattutto la voglia di vita della gente, la voglia di futuro dei bambini, la voglia di crescere i propri figli delle vedove, delle madri e dei padri. Ci sono degli esempi, delle comunità, delle persone che sono nel silenzio, proprio perché c'è questa paura a mettersi in mostra, che hanno salvato a rischio della vita, tante persone. Sono questi credo i germi di speranza su cui in qualche modo il Ruanda ed i ruandesi in primo luogo, possono costruire il loro futuro e credo che, se vogliamo, la speranza sia racchiusa nelle parole di un amico ruandese che mi ha detto, poco prima di lasciare l'aeroporto di Kigali: "La nostra speranza è che noi ruandesi possiamo un giorno tutti morire di vecchiaia, morire seppelliti dai nostri figli e non viceversa". Su questo augurio i ruandesi e chi in qualche modo vuole aiutare in maniera libera e anche convinta il Ruanda, debba muoversi. Chi vuole veramente che non ci siano più Ruanda debba in qualche modo muoversi in questa direzione e debba imparare che il Ruanda in fondo, non è un'esperienza che appartiene ai ruandesi, ma appartiene a tutta l'umanità e quindi anche a noi. E se usiamo un'altra immagine di un sacerdote ruandese, il Ruanda deve essere visto da noi stranieri, come uno specchio, uno specchio che ci ha riflesso immagini orribili, ma se guardiamo da vicino, dietro le immagini del Ruanda, riusciamo a vedere dei volti più bianchi che ci richiamano altre immagini orribili a noi più vicine, quelle della Bosnia per esempio e se guardiamo ancora più in fondo forse vediamo noi stessi riflessi in queste immagini con le nostre chiusure, la nostra paura dell'altro, il nostro chiudere la porta al vicino di casa, perché in fondo il Ruanda, come anche la Bosnia è stata per tutta l'umanità la guerra del vicino di casa, una guerra che potrebbe scoppiare in qualsiasi parte del mondo anche in Ticino, in Italia, in un piccolo villaggio qualsiasi.