Tolleranza, verità e integrazione


Di Cristina Vonzun

 

 

Un grande evento culturale si è svolto a Lugano dal 28 febbraio al 2 marzo di quest’anno. Vi hanno preso parte personalità del mondo politico, economico e religioso svizzero, italiano, arabo, nord-americano.

Il crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center a New York e l’ultima nave di disperati provenienti dal nord-Africa affondata al largo di Lampedusa, sono eventi che rendono palese il dramma di questi anni, in cui si stanno cercando vie di soluzione alle grandi questioni dei rapporti tra economia globale e globalizzazione della solidarietà, tra convivenza a carattere interculturale e interrelegioso,  tra popoli diversi in fermento ed in continuo movimento che incontrano società totalmente altre rispetto a quelle di provenienza.

 

Il congresso di Lugano ha tentato di offrire una pista di riflessione da cui poter elaborare ulteriori passi concreti. L’unico dato certo, per ora, è la coscienza di non essere in una situazione transitoria ma di trovarci stabilmente in un mondo sempre più multiculturale e multireligioso in cui occorre ridefinire i paradigmi di convivenza e improntare nuove modalità operative. Il convegno è stato organizzato dall’associazione amici di Eugenio Corecco, al fine di proporre un evento che fosse un’occasione di ricordo del vescovo di Lugano scomparso, mediante un servizio culturale offerto alla nostra società. Mons. Corecco, professore a Friburgo, educatore di giovani, teologo e canonista, sensibile alle grandi problematiche riguardanti la persona, è stato vicino concretamente ai migranti e presente con interventi e relazioni sulla questione, sia in Svizzera che all’estero.

 

All’onorevole Roberto Formigoni, presidente della regione Lombardia e già vicepresidente del parlamento europeo, abbiamo chiesto di tracciare alcuni presupposti del dialogo interculturale.

Oggi si parla spesso di tolleranza, ma in realtà, nel senso odierno, questa presuppone un’indifferenza assoluta nei confronti di quello che l’altro è e rappresenta. E’ una concezione tipicamente progressista che si pretende democratica ma che in realtà parte da una consapevolezza di una presunta superiorità culturale identificata nell’ideologia tecnica. E’ alla tecnica che si affida il futuro dell’umanità.

In realtà il fenomeno del dialogo tra le culture è quello di un confronto tra identità: solo chi è consapevole della propria identità culturale e religiosa, può stimare, rispettare e amare l’altra identità. Allora il dialogo sulla base dell’identità diventa realmente un arricchimento reciproco, non la ricerca solo di un vago e minimo comune denominatore, ma la costruzione di una capacità nuova di affrontare i problemi, tenendo conto di ciò che ognuno di noi è ma anche arricchendo la propria umanità nel confronto e nel dialogo con gli altri, nello sviluppo di un’esperienza comune. Questo arricchisce veramente l’umanità.

 

Nell’attuale situazione di perdita di identità cosa occorre ricuperare se vogliamo realmente essere capaci di dialogo e di integrazione? Ci ha risposto il prof. Giuseppe della Torre, rettore dell’università LUMSA di Roma: Ci troviamo in una situazione di grande frammentazione e disorientamento. E’ una condizione tipica dell’occidente che lo spinge ad equivoci di fondo tra i quali emerge la tolleranza relativistica senza punti di riferimento comuni che genera una sorta di ring senza sponde su cui si affrontano culture diverse. Si deve uscire da questa ambigua visione mettendo alcuni paletti che sono i valori inderogabili non di una cultura o di una storia, ma quelli della dignità della persona umana, quale che sia il suo colore, il suo credo, il suo paese di provenienza. Su questi valori possiamo cominciare a costruire positivamente.

 

Il tema dell’incontro tra un’identità occidentale sostanzialmente indebolita da un pensiero per niente forte e altre identità dai presupposti chiari e precisi, provenienti soprattutto dal mondo arabo è vivo. Come è possibile il dialogo e l’incontro tra due tipi così diversi di identità? E come superare paure e diffidenze che inevitabilmente prevalgono? Non c’è il rischio, in sostanza, che il forte si mangi il debole? Sentiamo a riguardo il prof. Francesco D’Agostino, docente di filosofia del diritto all’Università di Roma-Tor Vergata e presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: Integrazione significa rispetto profondo delle culture dei popoli immigrati e proposta di un sistema di diritti umani irrinunciabili, proposti non come diritti dell’occidente anche se storicamente sono stati elaborati in occidente, ma come diritti propri di tutti gli uomini , di tutte le culture, di tutti i tempi. La grande tematica dei diritti umani, tematica complessa e tuttora aperta è probabilmente l’unica realtà a nostra disposizioni per poter portare avanti un’integrazione tra popoli che sia comprensiva delle ragioni di tutti e non ne mortifichi alcuna. Per questo motivo si intende proporre, tra i diversi modelli di accoglienza, quello integrativo tra la comunità accogliente e quella accolta. Infatti è il modello che permette maggiormente l’integrazione nel campo dei diritti umani. Non è operando altrimenti secondo un modello assimilazionistico (americano-francese), che pensava di poter far acquisire agli immigrati l’identità culturale del paese accogliente sottraendo loro la memoria delle proprie tradizioni oppure mediante un modello detto di accoglienza-marginalizzazione (svizzero) in cui tra gli ospitanti e gli ospitati esistono solo rapporti funzionali e minimali, che il problema verrà risolto. Solo il modello integrativo tra le due comunità può dare una risposta, anche se a questo livello si è in fase di studio.

 

Con sua eccellenza mons. Mounghed El-Hachem, vescovo di Baalbek-Deir dei maroniti, in Libano, parliamo ancora di tolleranza. Il vescovo maronita è un cristiano che vive  in un paese arabo che almeno sulla carta, garantisce pari diritti tra fedeli di diverse religioni. La sua esperienza personale può dunque dirci molto nel campo della tolleranza: Penso che sia molto importante, in un mondo pluralista, in cui etnie e religioni diverse che a seguito di migrazioni si incontrano, accettare ed accogliere l’altro, tale e quale, come è, nella sua credenza, nella sua cultura. Il cristianesimo ha nella sua essenza il principio di tolleranza. Cristo vuole che tutti siano uguali e venga rispettata la dignità di ogni uomo, l’uguaglianza tra uomo e donna. Questo valore e atteggiamento primariamente occidentale e cristiano deve passare, prima o poi, nel mondo odierno.  E’ importante, pertanto applicarlo per primi. Offrire spazi e luoghi di cultura a questi popoli migranti, chiedendo tuttavia una reciprocità. Occorre un’attenzione sia personale, che governativa, che internazionale nell’applicazione di una legge di reciprocità, affinché quanto avviene pluralisticamente a occidente, si possa realizzare anche nel mondo arabo.

 

 

Integrare non dimenticare

 

Le interviste hanno messo in luce la necessità di un dialogo che necessita di presupposti chiari, per giungere alla possibilità di una integrazione di aspetti diversi da parte delle  culture nella misura in cui siano riconoscibili nell’orizzonte dei diritti umani. La necessità di rivedere alla luce della dignità dell’uomo e dei popoli, nuovi paradigmi sociali, economici e culturali, la necessità ulteriore di un discorso culturale che abbia alla base una antropologia capace di leggere la persona umana e dunque la cultura come fondamentalmente connessa con la dimensione trascendente-religiosa dell’uomo e religiosa concreta in una data forma storica, la necessità di non astrarre totalmente dal concreto per arrivare ad una tolleranza vuota o riempita solo di cultura tecnica, sono connotati che hanno trasversalmente percorso parecchie relazioni.

 

Certo, come ha rilevato il prof. Francesco Cossiga, già presidente della Repubblica italiana, i politici europei stanno facendo un passo indietro nel cancellare dalla convenzione europea le radici ed il riferimento religioso pur variato di chiese e comunità sia cristiane che ebree che musulmane. Percorrere la via del colpo di spugna nel nome di una tolleranza sopra le parti, è come defraudare l’Europa e l’europeo dei suoi fondamenti storico-culturali-umani più radicati, esponendolo a questo punto, lentamente ma inesorabilmente, al rischio di cadere nella morsa dell’estremismo religioso, da qualunque parte provenga.   Tale tesi verrà in seguito, ulteriormente ripresa, per gettare luce ulteriore riguardo a quanto fin qui affermato.

 

 

Benessere economico e dimensione culturale

 

Anche a livello economico la via da percorrere, presentata in una ampia riflessione dal dr. Cesare Romiti, presidente del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera,  non può più essere quella contraddistinta da un fondamentalismo nell’economia di mercato contraddistinto dall’unilateralità di quella che si può chiamare la “one best way”, la via migliore e a senso unico, che a lungo andare indebolisce le stesse democrazie. I parametri fino ad oggi percorsi della globalizzazione dell’economia e del relativismo etico si dimostrano insufficienti a rispondere ad un mondo povero in cui prevale l’instabilità politica ed i cui riflessi arrivano fino a noi. E’ interessante notare come l’analisi del benessere sociale tenga sempre più conto come fattore di sviluppo, non solo ed unicamente del grado di apertura al commercio internazionale ma di altri parametri quali la dimensione culturale e quella religiosa. Occorre pertanto muoversi a livello di cooperazione economica nei confronti dei paesi poveri ma anche effettuare un lavoro di valorizzazione dei diritti umani, infatti proprio a questo livello, che tocca la dimensione culturale-religiosa dei popoli e delle singole persone, si può percorrere una strada di globalizzazione del benessere. Questo conferma nuovamente che l’integrazione culturale non può non passare anche dalla valorizzazione attiva  data ad una precisa cultura e dunque ad una precisa e concreta religione. Questo vale in Africa come nella vecchia Europa.

Quale volto alla tolleranza?

 

L’onorevole Formigoni, nell’intervista ha evidenziato uno degli aspetti più difficili del problema, indicando quale unica verità e orizzonte di valore rimasto alla nostra cultura occidentale relativistica quello tecnico-funzionale. Esso, in realtà, non può costituire un orizzonte definitivo, essendo un mero prodotto umano, dunque modificabile  a piacimento. Purtroppo su questo surrogato di verità tecnica si costruisce un concetto debolissimo di tolleranza contraddistinta da meno del minimo comune denominatore e si mettono fuori gioco i riferimenti culturali delle religioni e ogni pretesa, pur retta, di ruolo educativo dei diritti umani nei confronti di tutte le culture, proprio perché essi stessi sarebbero “di parte” e dunque non rispetterebbero il principio presunto di egualitarismo.

 

Questa serie di osservazioni apre ad una domanda precisa che si è posto anche Mons. Angelo Scola, patriarca di Venezia, durante il convegno: per costruire la pace socio-politica è dunque necessario il relativismo religioso?

Abbiamo già visto negli interventi precedenti, anche quelli che hanno affrontato aspetti economici, che il benessere dell’uomo dipende anche dalla cultura e dal binomio tra cultura- religione. Questo dato è indice, pertanto, di un altro rapporto coessenziale al benessere della persona: il rapporto con il senso, con il fondamento dell’esistenza. Perché vivo? Cosa faccio in questo mondo? Privare l’uomo, come, fa certa tolleranza sotto il minimo comune denominatore, del riferimento al proprio fondamento e farlo crescere come se questo non esistesse, è operare contro la natura umana stessa e produrre una sorta di esistenza che potremmo definire virtuale, ovvero irreale.

Nella conciliazione della verità con la libertà, il Vescovo Scola ha individuato il fondamento della religione e dell’atteggiamento religioso dell’uomo, che è contraddistinto dalla testimonianza, ovvero dalla risposta della libertà alla verità che è incontro con la realtà. Per questo, Giovanni Paolo II ad Assisi, parlando il 24 gennaio scorso ai rappresentati delle religioni del mondo, ha invitato alla testimonianza quale dovere.  Sono i diversi fondamentalismi invece, quelle forme che staccano l’uomo dalla realtà proiettandolo in una sorta di idea-ideologia, privandolo del luogo dunque dove sorgono le domande fondamentali che si giocano nel dialogo tra libertà e verità. Anche i diversi relativismi che annichiliscono la domanda, sono altrettanto pericolosi perché aprono la strada ad un modo di vivere non adeguato alla natura stessa dell’uomo fatta per un incontro con la realtà.

 

 

La tolleranza è cristiana

 

Se da una posizione, qualunque essa sia, non si può naturalmente fuggire o sfuggire, proprio perché siamo uomini e donne con una natura per ora “non modificata tecnicamente” e dunque posta originariamente in un inevedibile rapporto di ricerca di senso con il reale, occorre capire il legame tra la verità e la tolleranza. Il cardinale Ratzinger, ne ha parlato ai presenti evidenziando quanto una fede privata della verità diventi un semplice ornamento che non aiuta a vivere e si trasformi in una sorta di farsa. Ma la domanda sul senso ed il legame fondamentale con la realtà nella libertà e nella verità che si da nell’accadere della testimonianza, viene arricchito, nella visione del cardinale, dall’apporto del bene e di Dio come il bene supremo. Solo in un rapporto con Dio, che è amore, l’uomo integra nella tolleranza che è originariamente cristiana, la componente dell’identità tra verità e amore. Solo una verità che si da nell’amore è la più grande garanzia della tolleranza. Questo valore e dimensione della  tolleranza va considerato nell’attuale riformulazione dei paradigmi del dialogo interculturale ed interreligioso, almeno da chi si identifica con il cristianesimo.