Ruanda: quando la scuola non riempe la pancia

 

Di Marco Fantoni



 

Dal 1998 Caritas Ticino collabora con la Caritas diocesana di Gikongoro in Ruanda sostenendo progetti a favore dell’infanzia e dei giovani. Questo con l’attiva partecipazione del Gruppo Missionario della Parrocchia di Giubiasco. Negli anni 1998 e 1999 avevamo sostenuto il finanziamento per la partecipazione alla scuola secondaria di 450 allievi.

 

Dall’anno scorso, sempre con la medesima Caritas e sempre nell’ambito dell’educazione, si stanno sostenendo 1000 giovani tra i 13 ed i 15 anni nell’apprendimento dell’educazione scolastica di base; leggere, scrivere e far di conto. Si tratta, in effetti, di giovani analfabeti che per cause diverse; conseguenze del genocidio del 1994, riluttanza dei genitori a mandare i figli a scuola, condizioni di orfani o abbandonati, non hanno avuto la possibilità di essere inseriti in un normale ciclo scolastico.

Dal luglio 1998 la Caritas Gikongoro ha verificato la situazione, recensendo 3.200 giovani in 3 parrocchie e pensato in seguito d’intervenire con progetti mirati a diminuire il dilagante analfabetismo. Ha valutato un numero sperimentale di mille allievi provenienti dalle parrocchie di Cyanika, Gikongoro e Mbuga, dove sono stati pure incaricati 25 insegnanti per l’istruzione.

Il progetto iniziato nel gennaio 2000 ha dovuto affrontare un problema non previsto all’inizio: l’abbandono dell’istruzione di base per recarsi, da una parte presso centri di formazione professionale per imparare un mestiere e dall’altra soprattutto per inserirsi in associazioni agricole, per la maggior parte gestite da ONG come World-Vision e Care International, in quanto queste ultime davano loro sementi e beni agricoli con lo scopo di risolvere il problema della fame che persiste tuttora. Questo ha provocato durante i mesi di gennaio, febbraio e marzo una diminuzione di oltre il 50% dei partecipanti, scesi a 485 allievi contro i 1000 previsti.

Si è dovuto perciò correre ai ripari, intraprendendo un nuovo progetto agricolo e affiancandolo a quello di alfabetizzazione e questo grazie al finanziamento di Caritas Ruanda. Con tale sostegno si sono potuti acquistare sementi per far fronte alle necessità dei giovani. I posti rimasti liberi dagli abbandoni sono stati coperti coinvolgendo altri giovani.

Durante quest’anno si sono avuti una cinquantina di abbandoni, dovuti soprattutto alla distanza che ogni giorno l’allievo doveva percorrere a piedi, più di  dieci chilometri, in particorale durante il periodo delle piogge. Gli insegnanti sono aumentati di un’unità passando a 26, per far fronte al sovrapopolamento delle classi.

Una situazione difficile da gestire e che non può e non deve essere paragonata al nostro stile di vita, dove, se non abbiamo tutto sotto casa (posto di lavoro, scuole, ecc.) arricciamo il naso.

Il progetto il cui obiettivo principale è quello di dare una cultura di base ai giovani, alfine di garantire un futuro migliore a loro ed alla nazione, reso difficile dagli ostacoli imprevedibili che si riscontrano. Ed è appunto il caso dell’abbandono della scuola per seguire corsi o partecipare ad iniziative che ti garantiscono un minimo di cibo. È proprio il caso di dire che a coloro che hanno abbandonato, la cultura non riempiva la pancia. E come dar loro torto? D’altra parte il progetto ha una finalità ben definita, appunto quella culturale dell’insegnamento, in cui sia chi l’ha promossa, sia noi in Ticino, facciamo fiducia. Siamo consci del fatto che alcune iniziative, in modo particolare in quelle regioni della terra dove ogni giorno bisogna fare i conti con la sopravvivenza, non sono di facile realizzazione. Crediamo d’altronde che questo progetto alla fine riuscirà a colmare una lacuna, seppur piccola, che in questo piccolo lembo nel Paese delle Mille colline può contribuire a far crescere dei giovani che potranno portare in futuro un contributo positivo al proprio Paese.

 

 

Dal 1994 ad oggi la giustizia cammina sul posto

 

Quando il 6 aprile 1994 l’aereo presidenziale con a bordo il presidente Juvenal Habyarimana venne abbattuto, iniziò quello che fu definito genocidio. Persero la vita più di mezzo milione di persone della minoranza Tutsi, ma anche Hutu e buona parte di coloro che si opponevano alla dittatura di Habyrimana. Le conseguenze furono tragiche e molti ruandesi furono costretti e rifugiarsi nelle nazioni confinanti. A questo popolo, a questa terra martoriata e lontano dai teleobiettivi dei network televisivi, il Papa, tramite il cardinale Roger Etchegaray ha voluto portare un messaggio di speranza. Lo ha fatto lo scorso 8 febbraio a Kigali, a conclusione delle celebrazioni per il centenario dell’evangelizzazione, auspicando che le commemorazioni possano essere da stimolo per un maggior fervore nelle opere, per una fede più solida e propositi più saldi, nell’imitazione dei primi evangelizzatori. Ha voluto sottolineare come queste celebrazioni abbiano avuto quale significato principale lo stimolo all’unità ed alla riconciliazione.

Anche la Chiesa ha subìto (vedi caso mons. Agustin Misago), e subisce tuttora pressioni verso propri sacerdoti e religiose. Non sta a noi dire chi è colpevole e chi no. Sta di fatto, però, che coloro che si adoperano a favore dei più poveri, vengono presi di mira da un potere poco avvezzo ad accettare queste situazioni. Abbiamo così anche sacerdoti che non possono rientrare in Patria per paura di essere perseguitati e chi in Ruanda vive vedendo la minaccia da vicino, solo perché potrebbe essere stato visto in un determinato momento a compiere una determinata azione. Il caso di Mons. Misago ci ha insegnato, che la giustizia tarda a venire ed anche i tribunali popolari, i Gacaca, da poco reintrodotti, non sono adatti a giudicare i presunti colpevoli di genocidio.

Sono attualmente circa 130.000 le persone richiuse nelle carceri del Paese che aspettano una decisione. Lo sono da troppo tempo e molti ci sono per errore. Come abbiamo avuto modo di verificare di persona, le condizioni di vita all’interno delle carceri sono disumane, le persone assiepate su steccati come galline, senza un minimo di spazio vitale, attendono qualcuno che possa dar loro una risposta, ma attendono invano.

Molte sono le ingiustizie e le condanne a morte che si susseguono in Ruanda e questo non lascia ben sperare, nonostante l’avvallo del nuovo governo USA (che non è di per se una garanzia) all’attuale regime di Kigali.

D’altra parte il lavoro della Chiesa, di riconciliazione e di assistenza su tutto il territorio è continuo ma spesso ostacolato. Questo ci può far dire che si è sulla strada giusta, che però presenta difficoltà che spesso si pagano con la vita. Una situazione che ricorda quella dell’America latina degli anni ’70. Sarà compito anche del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, con sede ad Arusha (Tanzania), contribuire al ristabilimento di una giustizia con la g maiuscola, evitando così di affidare ad improvvisati giudici popolari le sorti di persone che al genocidio hanno partecipato solo come vittime e non come carnefici.