Oggi san Martino venderebbe i suoi abiti usati


Di Giovanni Pellegri

 


Che cosa avrebbe fatto San Martino di Tours se fosse vissuto nell’Europa dei nostri giorni? Non sarebbe in giro a cavallo, con la spada alla cintura ... Probabilmente cavalcherebbe uno scooter e sarebbe armato di carta di credito. Ma questi sono fatti poco rilevanti, la questione fondamentale è un’altra: Martino  avrebbe ancora fatto a pezzi il suo mantello per darlo ai poveri? Il gesto resta sicuramente valido anche ai nostri giorni, ma occorre definirne il contenuto essenziale. San Martino ha condiviso con il povero ciò che aveva, non ha svuotato l’armadio degli abiti smessi. Il nodo della questione non era il mantello appoggiato sulle spalle dell’ignudo, ma l’accoglienza e l’attenzione data ai bisognosi. Ma allora che cosa farebbe San Martino nel Terzo Millennio per aiutare con i propri abiti i bisognosi?

 

Oggi facciamo fatica a comprendere l’azione caritatevole di San Martino, tanto che ci capita di sentire delle frasi di questo tipo: “Ho portato il mio mantello alla Caritas, pensavo che potesse servire ai poveri, due settimane dopo lo indossava un mio vicino di casa…che di povero non ha proprio nulla”. La generosità delle persone è stata tradita? Oppure San Martino dà i numeri? Vediamo di capire questa situazione.

Quando non c’è più posto nell’armadio per i nostri abiti, li portiamo alla Caritas o li gettiamo negli appositi containers. Con questo gesto, contribuiamo alla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani (gli abiti smessi sono infatti legalmente considerati dei rifiuti), nel caso in cui regaliamo i vestiti a progetti occupazionali sosteniamo dei posti di lavoro per persone in assistenza all’interno di percorsi di solidarietà. E da ultimo, con il denaro ricavato dalla vendita degli abiti usati a ditte specializzate (come per esempio Texaid) si sostengono i progetti e i servizi di Caritas Ticino.

Per disinformazione o perché ancora legati a vecchi modelli di intervento sociale, molte persone credono che i vecchi abiti siano inviati ai poveri in Svizzera o nel Mondo e ogni volta che questo non avviene si urla allo scandalo, confermando l’idea che gli aiuti umanitari non arrivano mai a destinazione.

 

La riflessione che segue è un estratto di un documento della Caritas Italiana firmato da Antonio Cecconi, che vuole essere un tentativo per educarci a recuperare una serie di attenzioni rispetto ad un gesto semplice come quello di regalare i propri abiti ai poveri. Non siamo come San Martino se crediamo che i nostri abiti vecchi o rovinati possano essere indossati dai poveri. Questo grande santo oggi raccoglierebbe tanti sacchi di abiti smessi, creerebbe dei programmi sociali di selezione degli abiti per dar lavoro e una dignità a persone emarginate e probabilmente riuscirebbe a convincere il riccone vicino di casa a comprare abiti usati. Con i soldi ricavati finanzierebbe progetti contro la povertà.

L’invio dei nostri abiti usati al Terzo Mondo non sempre risponde al bisogno della persone che li ricevono. Ma è vero che in questo modo esportiamo una grande quantità di rifiuti verso i paesi poveri (un sacco di abiti usati contiene circa 15-20% di abiti utili solamente per la discarica). Infine, tratte le dovute conclusioni, queste operazioni di “solidarietà” si rivelano fallimentari, infatti il denaro speso per la raccolta e la spedizione del materiale è più utile se investito in progetti di sostegno locali. La carità deve essere intelligente sennò non è carità è solamente la ricerca  affannosa di mettere a tacere il senso di colpa che abbiamo verso le persone che vivono nella miseria. Ecco quattro punti tratti dall›articolo di Cecconi*.

 

1. “I donatori: una prima attenzione educativa è verso i donatori, per comunicare loro il senso di una carità diversa dall’elemosina, dal pietismo, dal gesto assistenziale che rischia di servire più al buonismo di chi lo compie che a migliorare la vita e dare speranza a chi riceve. Ogni desiderio di fare il bene va certamente accolto e valorizzato, ma anche purificato ed educato. L’impulso del cuore muove le mani a compiere un gesto. Ma c’è bisogno di accompagnare la generosità emotiva (derivante per esempio da un appello in una calamità o dall’imbattersi personalmente in un povero) per farla evolvere in almeno due direzioni: una è la conoscenza nel senso di passare dalla percezione iniziale di un problema occasionalmente incontrato alla consapevolezza più ampia della povertà del territorio e del mondo, alla domanda/ricerca sulle cause, al contatto personale e coinvolgente con coloro che vivono situazioni di bisogno, sofferenza, esclusione. L’altra direzione di crescita è la continuità: occorre coltivare la disponibilità, superare gesti ed impulsi occasionali ed episodici per stabilire contatti stabili, coltivare legami, collegarsi ad altre persone impegnate, costruire amicizie ed alleanze.

 

2. I riceventi: Una seconda attenzione educativa è verso i riceventi, i destinatari del dono e dell’azione gratuita. Chi ha una certa pratica sul campo sa che non sempre le domande espresse sono quelle giuste. La richiesta di denaro, cibo o di indumenti spesso contiene altri bisogni, non necessariamente di tipo materiale; come pure si sa che la risposta automatica ai bisogni materiali può indurre la persona ad adagiarsi anziché divenire protagonista della propria liberazione. È un po’ la storia da tempo nota del dare il pesce oppure insegnare a pescare. Eppure c’è sempre qualche neofita del buon cuore che pensa di salvare il mondo con l’assistenzialismo e finisce per lasciare il prossimo, che credeva di aiutare, come o peggio di prima. L’abbiamo detto tante volte: non basta fare il bene, bisogna anche imparare a farlo bene.

 

3. Gli operatori dei mass-media: Una terza attenzione riguarda gli operatori dei mass-media, con i quali spesso è faticoso parlare di azione pedagogica. In genere il giornalista afferma che non è suo compito educare, ma solo informare. D’accordo, a condizione che tra i criteri dell’informazione ci sia la ricerca leale della verità dei fatti e il rispetto delle persone di cui si tratta nelle notizie. Nel caso dei sacchetti di abiti nelle discariche con la scritta Caritas, si è supposto di sapere che erano aiuti umanitari senza verificarlo con chi ne era responsabile. Più di un giornalista ha fiutato lo scoop senza chiedere alla fonte come stavano i fatti.

 

4. Il mondo ecclesiale: Infine, una dimensione della crescita riguarda il mondo ecclesiale nel suo insieme, in primo luogo le parrocchie. C’è bisogno di curare con maggiore attenzione – e soprattutto miglior conoscenza dei valori in gioco – i messaggi sulla carità e il servizio, sulla solidarietà e il volontariato. Il generico appello al buon cuore, alla “beneficenza” e all’elemosina non serve ai poveri e non educa la comunità.

La sfida per tutta la Chiesa è di saper fare una carità “bella”, cioè molto più della beneficenza, di qualche opera buona, di qualche vestito usato regalato al povero e di pochi spiccioli dati in elemosina. La carità del Cristo che dona tutta la sua vita, l’amore del Padre che per la Liturgia è “unica fonte di ogni dono perfetto” ci chiedono niente meno di questo”.

 

Una quinta attenzione riguarda i politici, i pubblici amministratori e le istituzioni. La nostra realtà, differente da quella italiana, merita un’osservazione separata.  Se da una parte non si perde un’occasione per elogiare la generosità del nostro popolo davanti alle collette a scopo umanitario, le istituzioni dovrebbero avere maggior coraggio politico per promuovere solo quelle iniziative che rispettino un autentico spirito di solidarietà e non solo di facciata. Nel campo dei tessili gli esempi non mancano. Sul nostro territorio sono regolarmente autorizzate collette di ditte commerciali che, con una facciata umanitaria, raccolgono abiti per venderli all’estero, esportando i rifiuti e non lasciando lavoro in Svizzera. Sono iniziative che ben poco hanno a che fare con la solidarietà. I comportamenti solidali, sono un bene prezioso per le nostre comunità, ma non si improvvisano. L’inevitabile dimensione politica della carità merita quindi una maggiore responsabilità delle istituzioni per correggere il tiro rispetto a conoscenze parziali o improprie di interventi che ormai fanno solo spettacolo e riscaldano il cuore dei donatori, senza nessuna conseguenza per i bisognosi. 

 

*Antonio Cecconi; Te li do io gli stracci…, “Avvenire” del 30 ottobre 1999, p. 10

 

 

 

Dove portare i vostri abiti usati

collaborando con CARITAS TICINO

 

10 Mercatini dell’usato, nuovi containers di Texaid e una colletta cantonale

 

Date una seconda vita ai vostri abiti  portandoli ad uno dei dieci negozi dell’usato di Caritas Ticino (Lugano, Pregassona, Locarno, Stabio, Chiasso, Giubiasco, Bellinzona). Inoltre a Lugano sono appena stati posati da Caritas Ticino dei nuovi cassonetti di Texaid per la raccolta di vestiti. Infine Caritas Ticino e Texaid   nelle due prime settimane di maggio svolgeranno una colletta di abiti nel Cantone Ticino tramite sacchi distribuiti alla popolazione. Per informazioni telefonare al 936 30 20.