Cultura della morte, pena della vita


Di Marco Fantoni


 

E’ purtroppo sempre d’attualità il tema della pena di morte. Spesso sono le cronache, o meglio i singoli casi, condanne di persone, soprattutto negli Stati Uniti d’America che rilanciano, in televisione e nelle piazze, l’argomento.

L’ultimo esempio, lo scorso mese di settembre, quando l’italo-americano Derek Rocco Barnabei, accusato di aver stuprato ed assassinato la sua fidanzata nel 1993, è stato condannato alla pena capitale eseguita attraverso iniezione letale dallo Stato della Virginia.

Questo soprattutto in Italia, dove in modo particolare RAI 1 si è impegnata nella copertura “dell’evento” anche mandando in onda, a mo’ di riflessione, il film Dead Man Walking oltre che a vari collegamenti in diretta.

Bisogna però anche dire che, mentre si compiva questo ennesimo “omidicio di stato”, nel Missouri veniva pure giustiziato George Harris, condannato per omicidio. Di questo, nessuno o pochissimi ne hanno parlato, nessuno si è collegato in diretta con i parenti del condannato.

Questo ci fa dire, ancora una volta, che la pressione sui media, dell’indice d’ascolto ha il suo influsso e nessuno nemmeno più lo nega, soprattutto per reti di alta diffusione. Pure di fronte a questi drammi c’è una scelta, privilegiare un “omicidio di stato” piuttosto che un altro, senza peraltro dar peso al secondo. Comprensibile per le radici famigliari di Barnabei, ma non sulla differenza d’informazione.

Ricordiamo che già nel 1997 i media avevano fatto una campagna simile per il caso di Timothy McVeigh, la persona che compì la strage di Oklahoma City, dove perirono 168 persone e condannato dai giudici di Denver.

Questi fatti, hanno il pregio di tenere viva la discussione anche se, spesso e volentieri si racchiude in sporadiche prese di posizione o atteggiamenti da pura contestazione o propaganda elettorale. Se poi approfondiamo, verifichiamo un attimo le personalità che scendono in piazza, possiamo scorgere coloro che da una parte sostengono la soppressione della vita attraverso l’aborto e dall’altra manifestano contro la pena di morte. La vita va difesa in ogni sua espressione, non solo parzialmente!

Per quanto riguarda la pena di morte, l’argomento è da trattare dal punto di vista del principio.

È concepibile che uno stato, si arroghi il diritto di sopprimere una vita, usando lo stesso metodo che il condannato ha compiuto verso la sua vittima? È sostenibile che uno stato utilizzi lo stesso mezzo di punizione che ha appena condannato?

Sul fatto che uccidere, in qualsiasi modo, dall’aborto, all’eutanasia, all’assassinio, ecc., sia sbagliato, non ci piove. Sul fatto che uno stato condanni questo errore, con il medesimo errore, è un paradosso ed un’assurdità.

Che poi i sondaggi approvino i metodi delle autorità, non vuol dire che siano corretti o meglio, rispettosi della dignità dell’Uomo.

Che ci sia una condanna a seguito di un regolare processo è giusto, ma che questa debba spingersi fino alla sopressione della vita è una barbaria.

 

 

Pena di morte ed economia

La pena di morte esiste ancora in alcuni Stati, tra cui la Cina, nazione con la quale anche la Svizzera intrattiene rapporti economici. Ed è forse in queso ambito, i rapporti economici appunto, o di altro tipo, che si potrebbero fare delle pressioni affiché si cambi direzione. Ma prendendo come esempio proprio la Cina, dove per il 1999 Amnesty International segnala 1077 esecuzioni, si può ricordare come il Governo di Pechino si arrabbiò alquanto per le manifestazioni d’innanzi a Palazzo federale, durante la visita nel marzo 1999 del Presidente cinese Jang Zemin, contestato oltre che da manifestanti tibetani, anche da chi reclamava un maggior rispetto dei diritti dell’Uomo, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ed è dello scorso 26 settembre un accordo sottoscritto dal nostro ministro dell’economia Pascal Couchepin ed il ministro cinese per il commercio Shi Guagsheng. Accordo che prevede agevolazioni doganali per orologi svizzeri e l’accesso al mercato finanziario della Cina. Per il 1999 le esportazioni svizzere verso questa grande nazione sono state calcolate in 990 milioni di franchi con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente.

Interrompere rapporti economici, oppure usare questo mezzo quale deterrente per costringere uno stato a cambiare strada in materia di pena di morte è alquanto difficile. Da una parte si verrebbe accusati di intromettersi negli affari degli altri, mentre dall’altra, i gruppi economici in causa farebbero delle pressioni tali su un governo da impedire questo tipo d’azione. Non dobbiamo poi dimenticare che le pressioni economiche o gli embarghi vanno spesso a colpire le fascie più deboli della popolazione di una nazione.

Altro esempio è l’accordo del 19 settembre scorso tra gli Stati Uniti d’America e la Cina, come dire, due sorelle nel campo della pena di morte, per quanto riguarda gli interscambi commerciali. Possiamo immaginare le pressioni fatte sul Senato statunitense da parte delle lobby del commercio. Questo a riprova di quanto succede spesso anche da noi, dove a farla da padrone non è la politica, ma i rappresentanti dell’economia in Parlamento.

Amnesty International, che da anni è impegnata seriamente nella lotta a favore dei diritti umani, nel suo ultimo rapporto, che riguarda l’anno civile 1999, ha diffuso alcune cifre che vanno peraltro lette tenendo conto che i numeri possono essere superiori a quelli espressi.

 

 

I paesi della pena

La Cina ha pronunciato almeno 1720 pene capitali di cui, appunto, 1077 eseguite. Le condanne sono utilizzate perlopiù arbitrariamente per ragioni d’ingerenza nel potere politico. Queste cifre portano, per i complessivi anni ’90, a 27120 condanne pronunciate e a 18000 esecuzioni. Le condanne, sempre stando ad Amnesty International sono eseguite con plotoni d’esecuzione oppure tramite iniezione letale, a volte solo dopo poche ore dal risultato del verdetto.

Negli Stati Uniti d’America, nel 1999, 98 prigionieri sono stati condannati in 20 Stati. Questo porta ad un totale di 598 esecuzioni dopo la fine della moratoria sulla pena di morte nel 1977.

La Turchia pare sia sulla buona strada per la rinuncia alla pena, ricordiamo comunque, come il 29 giugno 1999 Abdullah Ocalan è stato dichiarato colpevole di “tradimento e separatismo” e condannato a morte (non eseguita). Almeno altre 48 condanne a morte, sempre per l’anno scorso, sono state pronunciate dalla Corte d’appello e potrebberro essere eseguite se il parlamento le avallasse.

In Iran dove la pena è comminata per omicidi, traffico di droga, furto a mano armata, a volte anche per appartenenza a gruppi armati d’opposizione, si contano 165 esecuzioni. Un diciasettenne riconosciuto colpevole di omicidio, nell’ottobre 1999, è stato impiccatto.

Nel vicino Irak, diverse centinaia di persone sono state giustiziate, tra le quali alcuni prigionieri politici accusati di attività antigovernative.

L’Arabia Saudita ha compiuto almeno 103 esecuzioni a seguito di condanne per omicidi, stupri e traffico di droga.

Nella Repubblica Democratica del Congo si segnalano un centinaio di esecuzioni tra civili e militari, riconosciuti quali omicida, ladri a mano armata o condannati per infrazioni a carattere militare. Questo Stato ha dichiarato di voler abolire la pena di morte, ma che aiuti finanziari esterni, contribuirebbero ad una riforma maggiormente rapida del sistema giudiziario che attualmente non ha gli strumenti necessari per raggiungere questo scopo.

Dall’elenco, possiamo notare come questi Paesi abbiano un ruolo rilevante nell’economia mondiale e che spesso e non volentieri siano nominati per il non rispetto della dignità della persona.

La Cina con un potenziale enorme di consumatori fa gola a molti, ogni ulteriore commento a questo punto è superfluo.

Gli Stati Uniti d’America, parafrasando un vecchio e non dimenticato disco di Edoardo Bennato, “muovono i fili, stanno alla cassa”.

La Turchia è un’importante nazione con sbocchi sul mar Mediterraneo e sede di basi militari estere, nonché partner commerciale di molti paesi.

Iran e Irak occupano una posizione strategica non indifferente e con l’Arabia Saudita gestiscono il petrolio.

La Repubblica Democratica del Congo è una miniera di diamanti e un crocevia africano che vede affrontarsi belgi, francesi, inglesi e statunitensi.

Dunque, parlare di pressioni economiche da parte di un paese verso un altro appare alquanto impossibile o perlomeno sembrerebbe contradditorio in base agli scambi commerciali che si effettuano.

Quale soluzione, quale via d’uscita per convincere i governanti ad abolire la pena di morte? Non bisogna sottacere che il lavoro fatto da molte organizzazioni che si occupano del rispetto dei diritti umani può avere un certo effetto, ma non è sufficiente per raggiungere l’obiettivo finale, l’abolizione totale della pena di morte o meglio riconoscere la dignità in ogni persona.

Come abbiamo più volte scritto, il partire dalla coscienza personale è già un fatto significativo, là dove una coscienza a livello di potenti, ma non solo, esiste ancora. La visione che si ha dell’Uomo, l’atteggiamento che si mantiene davanti ad esso, prima di prendere una qualsiasi decisione, è preponderante.

Dal punto di vista pratico la pena di morte non ha portato all’effetto desiderato, ma anche se lo avesse fatto e lo ripeteremo sempre, non è con la cultura della morte che si vince la morte. Non è con il togliere la vita ad un condannato che si risolve il problema della violenza. Il lavoro deve essere fatto a livello generale, di presa di coscienza personale, di sguardo sulla persona in modo diverso.