A cura di Giovanni Pellegri
La parola a Don Elvio Damoli direttore di
Caritas italiana
L’importante è la crescita di una comunità autentica, il resto è questione di metodo. La CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha dato un’indicazione molto interessante alle Caritas parrocchiali : non dice di organizzare la carità, di fare un gruppo caritativo o assistenziale, ma assegna alla Caritas parrocchiale il compito di approfondire la teologia della diaconia, del servizio della carità.
Dunque una Caritas esiste, se esiste una comunità cristiana, cioè una teologia della parrocchia come espressione di una comunità, teologia della comunione della parrocchia, che è una crescita , un’applicazione, un vivere la pastoralità della parrocchia e uno sviluppo della teologia conciliare di una parrocchia-comunione, di una parrocchia-popolo di Dio, di una parrocchia-comunità.
In questo contesto pensando ad una parrocchia, guardo a quella comunità cristiana che la domenica frequenta l’Eucarestia, che deve diventare comunità e comunione. C’è un documento molto bello della Chiesa italiana, sviluppato negli anni ’80 quando le linee pastorali della Conferenza Episcopale Italiana approfondiva l’aspetto della comunione e della comunità. Esso definisce Parrocchia quella comunità cristiana presente su un territorio, che è radunata dall’annuncio e si ritrova nella celebrazione dell’Eucarestia ed è chiamata ad annunciare il Vangelo e a testimoniare la carità facendosi carico di tutte le situazioni di disagio e di bisogno vicino o lontano.
Ecco il compito di una Caritas parrocchiale, animare la comunità cristiana ad essere soggetto di carità. Non è un gruppo caritativo, non è un gruppo assistenziale, la dimensione significativa è soprattutto quella pedagogica.
Un operatore di Caritas parrocchiale, più che essere un’assistente sociale, un operatore del centro di ascolto, dell’osservatorio delle povertà che conosce, dovrà avere la capacità di trovare gli strumenti, gli agganci, i canali , affinché tutta la comunità sia messa a conoscenza delle situazioni, sia responsabilizzata e promuova degli interventi.
Se c’è una comunità cristiana, un territorio, una parrocchia delimitata geograficamente, dove le persone si ritrovano a celebrare l’Eucarestia domenicale, o questa diventa fonte di comunione, di vita e di interessi comuni, oppure è una celebrazione inutile.
S.Agostino dice che se noi partecipiamo all’Eucarestia domenicale ma non condividiamo la vita, noi mastichiamo il pane, sangue e corpo del Signore, ma non diventa corpo e sangue nostro. È necessario che noi condividiamo alcune dimensioni della nostra vita. Allora che questo nasca da una Caritas che propone, o da una parrocchia che diventa Caritas, è solo una scelta di metodo. Quello che importa è che la comunità cristiana non rimanga estranea ai problemi della vita del paese.
Ricordo di una parrocchia piuttosto chic (a Napoli), dove fui invitato per un incontro con tutti gli operatori pastorali. Mi dissero: “Sul nostro territorio non ci sono povertà!" Uno di loro affermò: “Forse la povertà più grossa, che ci sfugge, è la nostra celebrazione domenicale in cui ciascuno di noi viene con i propri problemi ed esce con gli stessi. Non facciamo comunione neanche nell’Eucarestia. Allora incominciamo a trovarci prima della messa sul sagrato ad accogliere la gente a parlare un pochino, incominciamo a trovarci quando esce la gente, a fermarci”.
A partire da questo si è creata una rete di amicizie e di conoscenze, e si sono scoperti problemi grossissimi. Ecco l’occasione, per la parrocchia che vuole diventare comunione e comunità.
Una Caritas che non si sostituisce allo Stato sociale direi che è una Caritas perfetta. Noi non siamo una Caritas che svolge per sua natura compiti assistenziali. Il nostro compito è soprattutto pedagogico, perché siamo un organismo pastorale.
Un organismo pastorale deve innanzitutto evangelizzare, perché il compito della Chiesa è quello di annunciare il Vangelo, coordinandosi con gli altri organismi pastorali: la catechesi, la liturgia, la pastorale della famiglia, dei giovani. Ecco allora il compito della Caritas: aiutare il cristiano adulto a formarsi nella fede per quanto riguarda tutta la tematica dell’impegno sociale e caritativo, non nel senso assistenziale, ma nel senso evangelico come dovere di giustizia, condivisione di vita che diventa uno stile di vita.
Direi che essenzialmente la Caritas fa cultura, perché il compito della Chiesa è quello di annunciare il Vangelo, con i segni che lo accompagnano: giustizia, carità, attenzione all’uomo e liberazione autentica.
Quale è il ruolo della Caritas Ambrosiana rispetto alle Parrocchie? La Caritas ambrosiana, in accordo con la Caritas Italiana e la Chiesa in Italia ha fatto una scelta molto precisa più di vent’anni fa con Paolo VI.
La Caritas è un Organismo pastorale della Comunità cristiana, quindi della Parrocchia (o della Parrocchia insieme ad altri), tenendo conto del tessuto italiano prevalentemente legato a una Comunità cattolica, con un forte radicamento sul territorio.
La nostra Diocesi ha 1100 Parrocchie, quindi la scelta è di stare nella Comunità parrocchiale. […]
Il nostro Sinodo ambrosiano ci ha dato tre compiti: la cura del povero, la collaborazione a costruire una Comunità fraterna nella Comunità, l’amore per il nemico.
E quindi la capacità di portare un messaggio di non violenza e di pacificazione che è certamente importante.
Allora noi non abbiamo il compito di animare la carità della Parrocchia perché questo è un compito fondamentale della Comunità cristiana. Abbiamo il compito di contribuire ad animare la Comunità cristiana nella vita di carità attraverso questo specifico che è l’attenzione a quelli che noi chiamiamo i poveri, le fasce deboli della popolazione, con due strumenti: uno è quello certamente di essere in profonda sintonia con la liturgia e la catechesi. Attenzione però si anima una Comunità se la Comunità è viva, altrimenti la Caritas non ha il compito di fondare le Comunità cristiane; la Caritas ha il compito di contribuire. E più si contribuisce, allora emerge l’altra funzione della Caritas, che è quella che sempre più chiede un confronto anche con altre realtà; e sempre più in un’ottica europea dovremmo confrontarci rispetto a questo: la Caritas testimonia la carità nel mondo e nella società a due livelli.
La prima testimonianza è una testimonianza di vita, di vicinanza, di santità, di generosità, di altruismo, di gratuità, attraverso la dedizione anche a livello personale.
La seconda testimonianza è invece l’intelligenza della carità, la sapienza della carità, quindi stare nella società, nella comunità più vasta, per dare diritti di cittadinanza a quelli che non ne hanno, per dare delle risposte e sollecitare le Istituzioni. E questa è la fase un po’ più fragile nel nostro tessuto, perché oggi nella nostra società si tende molto a delegare. La Comunità cristiana magari delega la cura ai poveri alla Caritas ma anche la società in genere delega alla Caritas i compiti più difficili, quelli delle varie situazioni di marginalità. Il nostro compito è di prenderne cura ma di produrre, di promuovere una cultura della socialità e della comunità che è più vasta. Quindi sollecitare le Istituzioni a fare la loro parte.
Quindi vi è una funzione che noi chiamiamo culturale, chiamiamo progettuale, chiamiamo anche in un certo senso politica, nel senso di sollecitare le Istituzioni a fare la loro parte. […]
Per Caritas non c’è futuro se la Caritas diventa un’operazione di bontà data alle persone di una certa età; ben venga che ci siano, evidentemente nella comunità queste persone però noi abbiamo bisogno di affascinare i giovani attraverso dei percorsi di testimonianza; e dove non riusciamo significa che la proposta Caritas è una proposta ancora intrisa di quella mentalità sostanzialmente individualista, qui uso una parola un po’ brutta, buonista. Tutti ci dicono che siamo bravi, ci danno dei soldini in termini di beneficenza; però questo legame, che è il legame coi poveri, che è il legame evangelico di Cristo che si è fatto povero non tanto per amare la miseria ma perché da questa condizione scaturisce la misericordia di Dio: questo è l’annuncio grande che si riesce a far capire con difficoltà.
D.: Ma se in Parrocchia non ci sono più i giovani quali strumenti adopera la Caritas ambrosiana per raggiungere queste fasce di popolazione?
R: Noi sottolineiamo molto il tema della Pastorale d’insieme nella logica che dicevamo prima. La Caritas non crea il rapporto coi giovani, la Caritas lo fa insieme alla pastorale giovanile, insieme a tutti gli altri.
Insisto molto su questa idea che la Caritas non è una tuttologa, non assorbe tutto il tema dell’educazione alla carità di una comunità cristiana perché il compito dell’educazione alla carità e della vita di carità, è della comunità cristiana e della sua liturgia, della sua catechesi, dei suoi processi di testimonianza. Quindi, tradotto: se non funziona la comunità cristiana o è assente, la Caritas non funzionerà mai perché la Caritas diventerà quella cura del povero in situazioni di emergenza.
Oggi abbiamo però anche un linguaggio molto importante per ricuperare i giovani, che è tangenziale alla pastorale ordinaria e che noi avvertiamo sempre di più. È il tema del volontariato. Ci sono tanti giovani che magari non sono omogenei alla vita della comunità, però vivono questa dimensione di generosità, di dedizione, di altruismo. Allora noi li dobbiamo ricuperare attraverso una serie di attività e di generosità, di progettazione, di servizi, di qualità; però, non semplicemente buonisti o improvvisati solo con l’occhio dell’emergenza. Noi stiamo scoprendo che qui c’è una possibilità inedita di ragionare anche con altre culture Caritas che sono molto più legate all’aspetto gestionale invece che all’aspetto promozionale.
Perché
attraverso questo livello di presenza, di ragionare sugli inserimenti lavorativi,
sui progetti cooperativistici, sul modo di fare comunità di accoglienza per
donne, minori, a tutti i livelli, noi mettiamo in moto una serie di interventi
sul modo di ripensare agli eventi internazionali, come stare presenti per
la pace, a tutti i livelli, come lavorare sul problema degli immigrati, come
riportarlo dentro nel contesto, mette in moto energie giovanili che adagio,
adagio, e attraverso questo dovremmo ricuperarli ad un percorso di motivazione,
di senso di orientamento. E’ quello che noi chiamiamo percorso di evangelizzazione.