Siberia: dalla deportazione la speranza


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i Dani Noris



“Solo la fede ci ha tenuto in vita” Questo ci continuava a ripetere Polina, una delle babuske incontrate in Siberia. Dopo quasi 60 anni il ricordo dei giorni terribili della deportazione, è di una lucidità impressionante. Di alcuni fatti le babuske ricordano il giorno e l’ora. Gli avvenimenti le hanno segnate così profondamente che nessun dettaglio è andato perso. Ricordano in qualche modo la precisione dei racconti evangelici, dove è spesso ripetuta la frase: “era l’ora terza”, oppure “era l’ora nona”.Noi di Caritas Ticino, accompagnati dal direttore della Caritas siberiana, guardavamo queste donne sopravvissute alla deportazione e ai lavori forzati, come a un’icona vivente, rendendoci conto di essere al cospetto di qualcosa di veramente eccezionale.

Umiliate, perseguitate, picchiate a causa della loro fede, sono rimaste fedeli a Cristo, e Stalin che ne aveva decretato l’annientamento si è trovato suo malgrado partecipe della nascita della Chiesa cattolica in Siberia. Ironia della storia!

I deportati sono stati milioni e i sopravvissuti, quasi solo donne, sono pochissimi. Abbiamo raccolto alcune testimonianze fatte in un misto di russo e tedesco e vogliamo dar voce al loro vissuto, una pagina di storia praticamente sconosciuta.

Ecco come le cose sono iniziate: Fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, gli zar, da Caterina la Grande a Alessandro II invitarono diverse migliaia di tedeschi a coltivare le terre fertili ma disabitate della parte meridionale della Russia da poco annesse all’impero.

I tedeschi avevano autonomia amministrativa, potevano usare la loro lingua per gli atti ufficiali e nelle scuole, avevano libertà religiosa e anche qualche libertà politica.

Con Stalin al potere, la tranquilla vita dei Russlandeutsch, o Kulaki, come erano chiamati, fu travolta da un uragano: l’immagine del contadino benestante, che lavorava la sua terra e credeva in Dio non era certo l’immagine dell’uomo nuovo modellato dal partito.

Iniziò così la deportazione di centinaia di migliaia di uomini, fra i quali il padre di Polina e delle altre Babuske incontrate in Siberia: “Nostro padre fu portato via di notte con altri uomini, ricordo nostra madre che rincorreva il carro piangendo. Le ruote avevano lasciato dei solchi sulla terra bagnata e per diversi giorni le donne si chinavano a baciarle, era l’ultimo ricordo del loro uomo. Poi la pioggia e il vento ha cancellato anche queste tracce e della maggior parte degli uomini non si seppe più nulla. Solo negli ultimi anni qualcuno è venuto a sapere quale sorte era toccato ai loro cari: o la fucilazione o la morte di stenti nei campi di lavoro”.

Con l’invasione dell’URSS da parte dell’esercito tedesco, la situazione dei Russlandeutsch non poteva che peggiorare, Stalin ritenendoli potenziali alleati di Hitler decretò l’abolizione della Repubblica dei tedeschi del Volga e organizzò il 28 agosto 1941 la deportazione generale. In pochi giorni donne, bambini, uomini, vale a dire un intero popolo, fu fatto sparire.

Ci racconta Lidia, un’altra sopravvissuta:

“Quando ci hanno presi e ci hanno portati in città siamo passati da alcuni villaggi evacuati. Non c’era più nessuno tranne gli animali rimasti soli e ogni bestia esprimeva il suo dolore con il suo linguaggio, era una cosa terribile. Le porte delle case vuote erano sbattute dal vento e il latrare dei cani, il muggire delle mucche erano un lamento che svegliava i boschi addormentati. 

Al momento in cui ci hanno ordinato di prepararci a partire, nostro fratello aveva la febbre altissima e non riusciva nemmeno a muoversi. Aveva 15 anni e piangendo gridava: “ Mamma non portarmi da nessuna parte, lasciami qui nel mio letto.” Ma nostra madre non poteva decidere niente, e comunque come avrebbe potuto lasciare solo un figlio così malato. Allora l’abbiamo preso in braccio e ci hanno caricato tutti sui vagoni. Il terzo giorno di viaggio, alle cinque di sera nostro fratello è morto. Quando il capotreno è venuto a saperlo ha mandato la notizia alla prima stazione di transito. A mezzogiorno dell’indomani il treno si è fermato, hanno aperto il lucchetto e i ragazzi della milizia sono entrati e l’hanno portato via, poi hanno richiuso le porte e il treno è ripartito.  Nostra madre è quasi impazzita dal dolore, non poteva nemmeno seppellire il suo unico figlio maschio. Non sappiamo cosa ne abbiano fatto, se l’hanno sepolto, se l’hanno messo in una fossa comune, se l’hanno bruciato. Sappiamo solo che nostra madre, giorno dopo giorno e fino alla morte non ha mai cessato di soffrire.

Sui binari morti si possono vedere, ancora oggi, dei vagoncini rossi abbandonati, ecco è in quei vagoncini che ci hanno portato, a gruppi di 80. Non potevamo sederci ne sdraiarci. I primi giorni ci davano da mangiare un pasto al giorno, poi più niente. Dopo 18 giorni di viaggio ci hanno scaricati facendoci sedere lungo i binari.

Nelle vicinanze c’era un kolkoz e noi dovevamo aspettare che organizzassero il trasporto con dei carri. Abbiamo iniziato a lavorare nel kolkoz, ma dopo un anno ci hanno mandato ai lavori forzati, eravamo tre sorelle e ci hanno divise tutte. Lì la vita era veramente un inferno. Al mattino quando era ancora buio ci mandavano nei campi, in mezzo alla neve a raccogliere il grano lasciato a mucchi. C’era tantissima neve e noi non avevamo abiti caldi. La sera quando rientravamo nelle baracche o nelle buche scavate nel suolo, avevamo le gambe congelate e  coperte di sangue.

Non c’era nemmeno una stufa per scaldarci né per fare asciugare i vestiti. Ci dormivamo sopra per scaldarli e il mattino dopo ce li rimettevamo ancora bagnati e uscivamo al lavoro a -30°. Inverni interi abbiamo vissuto così, i nostri vestiti marcivano sui nostri corpi. Ho lavorato così per 14 anni, trattata  peggio dei maiali. Il poco cibo che ci veniva dato era schifoso. Le nostre facce erano gonfie dalla fame e dal nostro viso colava dell’acqua, sembrava che le nostre teste dovessero scoppiare talmente erano gonfie.”

Polina ha un volto stupendo, due grandi occhi azzurri e uno sguardo calmo, rassegnato. Non c’è rabbia nel suo racconto, solo un’infinita tristezza, che ti scuote le viscere. La guardi e ti chiedi come abbia potuto resistere 14 anni così.: “ Solo il pensiero di Dio mi ha tenuta in vita”

Anche Nina Antonova è sopravvissuta agli stenti, anche lei, con voce tranquilla racconta:  “Durante tutta la mia infanzia ho creduto e pregato, e quando ci hanno deportati avevo 17 anni. Sono stata mandata ai lavori forzati, lavoravo nel bosco da quando faceva  giorno fino a notte inoltrata. Abitavo in un rifugio scavato nella terra. Dal 1942 al 1948 ho vissuto in quella  buca, in compagnia del freddo e della fame. Poi mi hanno mandato in ospedale per sei mesi perché le ginocchia mi si erano congelate e la carne marciva, così dovevano togliermela a pezzi.

Ho passato anni terribili ma ogni domenica mi incontravo con Polina a pregare, perché lei aveva una statuetta della Madonna. La vita è diventata più facile da quando i preti hanno cominciato a venire da noi, nel 1994. Io era dal 1934 che non vedevo un prete.”

Il racconto di un’altra babuska di nome Nina:

“I miei genitori erano credenti, mio padre fu deportato prima di noi e messo in prigione, con una condanna di 10 anni ma è morto dopo cinque. Siamo venuti a saperlo ultimamente perché ci hanno mandato dei documenti in cui si dice che è stato riabilitato. Anch’io sono passata da tutto quello che hanno raccontato le altre, ma  ho avuto la fortuna di vedere un prete una volta. Era arrivato in paese all’improvviso, non so come si sia riusciti a far passare la voce ma ci siamo radunati di nascosto in una casa e ha battezzato  al buio tutti i nostri figli. Poi è sparito, probabilmente è stato arrestato perché lui andava dappertutto, battezzava, confessava, celebrava la messa. “Non abbiate paura” continuava a ripeterci. Lui paura non ne aveva ma credo sia stato incarcerato o ucciso perché  più nessuno l’ha rivisto.”

Il direttore della Caritas siberiana,  don Ubaldo, sacerdote italiano dei Missionari di San Carlo, era arrivato in Siberia nel 1991. Dopo circa un anno il Vescovo di Novosibirsk Mons. Werck, aveva detto:  “Poiché ora capisci abbastanza il russo da poter confessare, vai in quella tal regione perché ho sentito dire che ci sono alcune babuske cattoliche, vai e celebra per loro la Pasqua”. Don Ubaldo si aspettava di incontrare qualche vecchietta, ma appena giunto a Polovinnoe, un villaggio a circa 350 km da Novosibirsk un tam tam silenzioso si era messo in movimento da una casa all’altra, da un villaggio all’altro. Giunse fino all’isba di una vecchietta che da 50 anni pregava per riuscire a vedere ancora un prete e accostarsi ai sacramenti. La babuska si mise immediatamente in viaggio, camminando per un’intera settimana. Rimase una settimana a Polovinnoe e riprese il cammino di casa. Tre settimane per confessarsi e ricevere la comunione!

Per don Ubaldo l’incontro con questa realtà è stata un’esperienza travolgente. Con l’aiuto della gente ha costruito una bella chiesa che ora è affidata a un altro sacerdote, Padre Francesco che è diventato un prete ambulante che gira di villaggio in villaggio a incontrare le piccole comunità di credenti.

Negli ultimi anni moltissimi tedeschi di Russia hanno lasciato la Siberia e si sono trasferiti in Germania dove sono state aperte le porte ai sopravvissuti. Per le babuske si tratta di un’altro viaggio verso una terra straniera, poiché in Germania non ci sono nate e il tedesco che parlano lo capiscono solamente fra di loro. Se hanno lasciato la Siberia è perché potevano portare figli e nipoti e offrire loro un’opportunità di vita migliore. Un nuovo strappo, un ulteriore gesto di offerta, sostenute  anche in questo nuovo esodo dal fondamento della loro vita, la fede in Gesù Cristo. Un sacerdote tedesco raccontava a don Ubaldo che le babuscke giunte in Germania sono un dono prezioso per la Chiesa cattolica tedesca.

Percorrendo l’itinerario di Padre Francesco  siamo arrivati da Ana e Sasha. Loro non hanno voluto lasciare la Siberia, non hanno avuto figli, non c’è scopo lasciare la terra sulla quale hanno tanto lavorato e sofferto. Sasha, con la sua camicia a scacchi che non riesce a chiudere lasciando scoperto un enorme ventre, questa è la sua tenuta anche quando la temperatura scende oltre i meno 20°, parla poco del passato, risponde a monosillabi: “Domandate a lei - dice indicando la moglie - lei ricorda tutto”. Soltanto più tardi, quando l’intervista è terminata la lingua gli si scioglie e tiene banco con uno humour pungente e delicato. Ci serve il “pirivon” un distillato di vodka, la cui gradazione non ci è stata rivelata, ma che ha lasciato le nostre lingue insensibili per un paio di giorni.

Sua moglie Ana, con il  fazzoletto colorato e le forme da matrioska ha un sorriso buono, caldo, lei davvero ricorda tutto: “Potrei scrivere un libro grosso così e forse non basterebbe per raccontare tutto!

Il 28 agosto ci hanno radunati da ogni parte e ci hanno fatto rimanere stesi per terra per tre giorni, sotto la pioggia, poi ci hanno caricato su carri e portati a un porto, sul Volga. Con il battello ci hanno trasferiti in città e poi caricati su vagoni bestiame. Eravamo stretti come pesci  in un barattolo, se eravamo girati su un fianco rimanevamo così fino a quando tutto il vagone non si metteva d’accordo su come muoversi.

Quando siamo arrivati qui, nostro fratello maggiore è stato mandato ai lavori forzati ed è morto, così come è morta mia sorella, io invece ero troppo giovane e sono stata con la mamma che lavorava in un kolkoz.

Sono stati anni in cui abbiamo conosciuto ogni sorta di umiliazione.

I soldati avevano potere assoluto di vita e di morte su di noi. Sapevamo che avrebbero potuto ammazzarci senza dover rendere conto a nessuno. Avevano escluso Dio dalla loro vita e questo rendeva loro le cose più facili. Ricordo un giorno, in un villaggio qui vicino, un soldato ci ha fatto mettere tutti in cerchio e ci urlava che avrebbe potuto fare di noi quello che voleva. Per dimostrarci che era vero ha scelto una bella ragazza, l’ha fatta piegare davanti a sé e le ha sparato.

Noi abbiamo continuato a pregare ogni giorno. Pregavamo anche con le altre famiglie qui intorno, di nascosto sottovoce, al buio. Andando a scuola spesso la milizia mi chiedeva se a casa pregavo, io negavo perché altrimenti mettevo in pericolo la vita di mia madre. Negavo, ma la preghiera la tenevo cara nel cuore.

Conoscevamo a memoria alcune preghiere ma avevamo anche un vecchio libro di nostro padre, che tenevamo nascosto. Parlavamo in russo ma pregavamo in tedesco. A  Pasqua e a Natale ci ritrovavamo in una baracca qui dietro casa nostra,  tutti quelli che potevano camminare si riunivano. Facevamo tutto in gran segreto per non attirare l’attenzione, ma a volte eravamo più di duecento stipati nella baracca a pregare. Fino al 1997 quando è arrivato padre Francesco, che ora viene ogni due settimane a celebrare la messa, non è mai venuto un prete qui. Però nel 1958 abbiamo saputo che a Karagandà c’era un sacerdote, così con Sasha ci siamo messi in viaggio e siamo andati a sposarci.”

La nostra vita è stata davvero dolorosa, i nostri occhi hanno visto orrori che spesso mi chiedo come abbiamo potuto sopravvivere a tutto questo.  Non riesco ad immaginare cosa avremmo potuto fare della nostra vita se non avessimo amato Dio

Dopo aver passato qualche giorno con le babuske siamo andati dal vescovo di Novosibirsk, Mons. Werk, figlio della deportazione. Accogliendoci ci ha detto che abbiamo avuto un amico comune, Mons. Corecco che aveva avuto modo di conoscere e stimare.

Contemplando la Cattedrale, inaugurata nel 1997 pensavo agli anni della mia gioventù quando con alcuni amici mi ritrovavo a pregare per i cristiani della Chiesa del silenzio, per la Russia cristiana. Leggevamo le pubblicazioni del Samizdat, divoravamo i romanzi di Solzenicyn, di Sinjavskij e degli altri scrittori del dissenso. Pregavamo per i nostri fratelli perseguitati che non avevano né un volto né un nome. Ora avevamo conosciuto alcuni di questi volti, ascoltato le loro storie, pregato con loro  in una Chiesa in Russia e mi sembrava di vivere un miracolo.

I mattoncini rossi con i quali la Cattedrale è stata costruita ci ricordavano le migliaia di persone che avevano sofferto disperse in quel territorio immenso. Ognuna di loro aveva contribuito a costruire la Chiesa, il sangue di quei martiri non era stato versato invano.

Guardando alla nostra storia, alle vittime innocenti, al dolore del mondo causato dal desiderio di supremazia di uomini su altri uomini facevamo nostre le parole di Polina: Solo la fede può tenerci in vita.