Due Papi beati


Da “Avvenire” di Rino Cammilleri



L’8 dicembre 1864, lo stesso giorno in cui dieci anni prima era stato proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, veniva pubblicata l’enciclica Quanta cura. Recava annesso un catalogo (in latino Syllabus) di dottrine, idee, teorie e affermazioni che la Chiesa condannava.

Fosse uscita da sola, l’enciclica avrebbe avuto un effetto meno dirompente: si sa, le encicliche sono generalmente prolisse, avvolte in uno stile solenne e severo che stempera in qualche modo il rigore delle affermazioni. Ma quel repertorio di brevi proposizioni, secche, precise, terribili, ebbe l’effetto di un macigno piombato in un negozio di specchi. Non potevano esservi dubbi, né vi era spazio per erudite controversie di teologi: quelle 80 frasi erano lì, nero su bianco, seguite dal richiamo ai pronunciamenti pontifici che le fulminavano. Un pugno diretto allo stomaco del mondo moderno (anzi, al suo cuore), così come esso si era venuto sviluppando negli ultimi due secoli.

La semplice impostazione di condanna (la Chiesa condanna chiunque affermi questo e quest’altro...) costituiva una sorta di prontuario per il credente: gli bastava fare il contrario per essere nella verità cattolica. Solo che in quel documento c’era l’universo intero, lo spirito della modernità era folgorato in toto, né rimaneva quasi spazio per altro. In genere si dice che a chi crede bastano poche parole; è chi non crede o per quelli paucae fidei che, sempre in genere, «questo linguaggio è duro» (Gv 6,60).

Duro, quello del Sillabo, lo era senz’altro; ma altrettanto sicuramente, chiaro ed efficace. Infatti all’epoca tutti capirono perfettamente. E da allora le cose non sono più state le stesse, con implicazioni e complicazioni che tuttora perdurano, a 136 anni di distanza. Molti cattolici, infatti, considerano il Sillabo una sorta di scheletro nell’armadio, un momento della loro storia di cui vergognarsi e scusarsi. Per mettere in difficoltà un cattolico in una discussione basta a un certo punto scagliargli in faccia un «E il Sillabo?». Di solito l’effetto che si ottiene è paragonabile a quello, terroristico e paralizzante, che si aveva quando, in tempi neanche tanto remoti, si dava del «fascista» a qualcuno.

Coloro che, quasi un secolo e mezzo fa, sostennero e difesero quel documento sono considerati, nella migliore delle ipotesi, «anime povere di vita che non sapevano nulla dei vasti orizzonti del mondo moderno». L’affermazione è di uno storico laico, Gabriele Pepe, ed è contenuta in un libretto dal titolo: Il Sillabo e la politica dei cattolici. Non vi sarebbe niente di strano, rispetto ai giudizi ancora correnti suL Sillabo, se queste parole non fossero datate Capodanno 1945, cioè a pochi mesi dalla fine dell’incubo peggiore che il «mondo moderno» (anzi, il mondo tout court) avesse mai conosciuto.

Dopo lo spaventoso carnaio della seconda guerra mondiale, dopo i lager, dopo Hiroshima, dopo le purghe sovietiche, dopo l’Europa ridotta a un cumulo di rovine fumanti, forse era davvero il momento di chiedersi se il Sillabo non avesse avuto per caso ragione. Se cioè, quel vecchio Papa che un secolo prima era stato «sconfitto dalla storia» non avesse voluto lanciare un grido profetico alle generazioni presenti e future; un ultimo grido disperato, una messa in guardia tagliente e forte contro le ineluttabili conseguenze di certe premesse, contro gli abominevoli frutti che sarebbero cresciuti sui tronchi delle ideologie; un monito contro tutti gli «ismi» che si presentavano, allora, radiosi e gravidi di futuro.

Se c’è qualcuno che può veramente capire e apprezzare la lucidità del Sillabo, quelli siamo proprio noi, uomini del Duemila. Noi, che possiamo mettere in fila e valutare tutti i disastri che sono venuti dopo e che hanno avuto come portata finale l’epoca in cui viviamo, contrassegnata dal nichilismo e dal rifiuto della vita. Il secolo seguito al Sillabo è stato definito, nella migliore delle valutazioni, «breve». Ma anche «del male» e «dei martiri», nonché «della morte di Dio» che ha portato con sé quella «dell’uomo». Si noti che tutte queste definizioni sono rigorosamente di mano laica. Man mano che si spegne la luce portata dal Cristo (riflessione del cardinale Ratzinger), tornano superstizione e schiavismo, suicidi e violenza diffusa, il vizio premiato e la virtù derisa...

Ma è inutile fare l’elenco: basta leggere la cronaca quotidiana. Il sottofondo comune è la paura, paura del presente e, soprattutto, del futuro. Dalla stessa scienza si prendono le distanze: la diffusa preoccupazione ecologica e la sfiducia nella medicina ufficiale valgano per il tutto. Ma è una paura che gli uomini dell’ottocento, abbagliati dalle promesse degli «ismi», non avevano. Anzi. In una parte di certo mondo clericale è invalso oggi l’uso di qualificare come «profetici» gesti, atteggiamenti, parole che altri potrebbero trovare, piuttosto, opinabili o magari, in qualche caso, insignificanti.

«Profetico» vuol dire «capace, per ispirazione, di vedere e rivelare il futuro». Quanti, di quelli che criticano il Sillabo, possono dire di averlo letto e, magari, studiato? Forse troverebbero che quel vituperato e negletto documento della Chiesa docente fu realmente «capace, per ispirazione, di vedere e rivelare il futuro». Certo, non c’è scritto per esteso, che il comunismo finisce invariabilmente nei gulag. Ma non è profetico già il solo averne inserito la voce nel 1864? Si faccia caso alla data; il Manifesto cominciò a circolare clandestinamente solo durante la Comune di Parigi del 1871.

Certa storiografia, anche di parte cattolica, ha opposto per lungo tempo il Magistero di Leone XIII a quello di Pio IX, tanto “chiuso”, questo, nei confronti del mondo moderno, quanto quello sarebbe stato “aperto”. Eppure fu proprio Leone XIII, quando era l’arcivescovo di Perugia Gioacchino Pecci, a lanciare l’idea di un Sillabo fin dal 1849, e a battersi e insistere affinché un “catalogo” di errori venisse stilato a modo di vademecum riassuntivo.

Leone XIII lo si cita a proposito e a sproposito come il Papa della Rerum Novarum, senza mai ricordare che la terza parola dell’enciclica è cupiditas: “il desiderio smodato di novità...”. Così comincia, con una condanna perfettamente in linea con quelle del predecessore, la famosa enciclica leoniana.

Giudicare il Sillabo senza conoscere niente del clima in cui maturò è come deridere i fucili ad avancarica avendo l’occhio sulle moderne armi al laser. Il susseguirsi degli eventi storici e la modifica di alcuni dati di partenza ha reso possibile alla Chiesa l’accantonamento e addirittura la rimozione di molte delle condanne contenute nel Sillabo. Ma quello scarno elenco vide la luce in una cittadella assediata e prossima alla fine, mentre antichissimi diritti venivano irrisi e schiacciati in nome di un “Progresso” che oggi non pochi storici - anche laici - cominciano a vedere nella sua giusta luce anche di sopraffazione politica e ideologica.

Nessuno più osa negare che, a partire dai philosophes settecenteschi, la Chiesa da cui uscì il Sillabo aveva dovuto affrontare il giacobinismo, il bonapartismo e infine il liberalismo virulentemente anticattolico risorgimentale. Inquadrato storicamente il Sillabo rivela, nel suo linguaggio, tutto l’orgasmo e l’angoscia di chi vedeva un mondo finire forse per sempre. Ma lo studio sereno e pacato non potrà non rivelare in esso il grido - ripetiamo, profetico - di un pastore che dice al suo gregge: state attenti, quel che vi sembra “sol dell’avvenire” si rivelerà puro veleno.

La beatificazione in contemporanea di due papi, Pio IX e Giovanni XXIII, mostra tangibilmente che la Chiesa è sempre la stessa; cambia solo il modo di predicare un identico messaggio a uomini di epoche differenti. Ma è quanto meno singolare osservare quante voci si sono levate a dichiarare il “gradimento”: questo Papa sì, quello no; ultima - ieri su La Repubblica - quella dello storico “laico” Lucio Villari. Tanto per cambiare, i più critici sono quelli a cui le beatificazioni dovrebbero importare meno, visto che sono dichiaratamente i più distanti dal credo cattolico.

Ma chiunque abbia esperienza di dialogo sa che i difensori della “tolleranza” diventano virulentemente intolleranti quando sono i loro dogmi a venir messi in discussione. La “libertà” deve dunque venire difesa anche da se stessa? Deve essere tutelata a qualunque costo anche dalle critiche che essa stessa potrebbe generare? Ecco un bel paradosso su cui il pensiero cosiddetto laico potrebbe più utilmente esercitarsi anziché cercare di insegnare alla Chiesa il suo mestiere.