Vite in gioco

Di Dante Balbo



Giocati dall’illusione di essere più forti degli dèi non sanno di mettere in gioco ben più di qualche spicciolo. Alla fine, della loro umanità restano le briciole

In questi tempi di turbolenza economica, di ripresa e di crisi, di illusioni e tracolli, un tema è venuto progressivamente ad occupare le pagine della stampa e gli spazi televisivi: il gioco d’azzardo.
Risorsa per alcuni, strumento del demonio per altri, occasione di svago o rovina sociale, per noi del Servizio sociale è esperienza di disagio, causa di difficoltà famigliari e personali.
Per capire qualcosa di più, oltre al quadro che trovate nell’ articolo di Marco Fantoni su questo stesso numero di Caritas Insieme, vi riportiamo la testimonianza di una signora che sintetizza la sua storia e la scoperta di questo mondo sorprendente del gioco e dei giocatori che come un uragano si è abbattuto sulla sua famiglia portandola sull’orlo della disfatta.


Gentile signora,
le scrivo perché parto, ritorno per un po’ di tempo a casa dei miei, mia madre è malata, ha bisogno di cure e io ho bisogno di un cambiamento.
Volevo ringraziarvi di cuore per l’aiuto e il sostegno che mi avete manifestato nel corso di questi terribili mesi appena trascorsi. Poter contare su di voi mi ha permesso di continuare a sperare che fosse possibile uscire dal tunnel nel quale ero precipitata, non per colpa mia. Ho pensato di scrivere la storia di quanto è successo alla mia famiglia perché forse mi aiuta a soffrire meno e magari può essere di aiuto a qualcun altro.
Mi sono sposata dodici anni fa e ho desiderato subito avere dei figli ma per diversi anni non ne arrivavano. Allora ho continuato a lavorare e poiché lavoravamo in due riuscivamo, mio marito ed io, a mettere da parte un po’ di risparmi. Man mano che gli anni passavano il nostro gruzzolo in banca aumentava e pensavamo che magari avremmo potuto comperare una casetta o un appartamento. Però per me il desiderio più grande era di diventare mamma. Dopo otto anni di matrimonio finalmente sono rimasta incinta. E’ stata una gravidanza molto difficile, dovevo stare spesso a letto ma alla fine siamo stati colmati da una grande felicità. La nostra bambina è sana, bella, intelligente.
Io ho smesso di lavorare per occuparmi di lei e mi sembrava che tutto andasse per il meglio. Non sapevo, invece, che la nostra famiglia stava camminando sulle sabbie mobili.
Da quando ci siamo sposati è sempre stato mio marito a occuparsi dei conti di casa. Aveva pianificato tutto bene, conti da pagare, soldi per la spesa, risparmi da mettere in banca. Lo faceva bene e io non mi sono mai posta il problema.
Da quando avevo smesso il lavoro lui aveva incominciato a lavorare a turni o a fare ore supplementari, così che guadagnava qualcosa di più. Spesso quindi la sera rientrava tardi o riusciva dopo la cena. Mi diceva che andava a lavorare e io non avevo motivi di credere che non fosse vero.
Lo scorso anno mio marito, che era sempre stato un uomo sereno e allegro, ha cambiato carattere. E’ diventato nervoso e collerico; sembrava che sia io che la bambina lo disturbassimo con la nostra presenza, quando gli chiedevo cosa avesse, non mi dava risposta, se insistevo si metteva a urlare. Io non riuscivo più a capire cosa stesse succedendo, pensavo che fosse troppo stanco per il lavoro supplementare o malato, infatti, era pallido e dimagrito, ma non voleva sentir parlare del medico. Un giorno non mi ha dato più i soldi per le spese di casa. Ho dovuto richiederglieli diverse volte e invece di darmi la cifra mensile, mi ha dato alcune decine di franchi. Naturalmente ho chiesto spiegazioni, ho insistito, mi sono anche arrabbiata e mi sono ritrovata un occhio blu.
Non so descrivere l’angoscia che ho provato, mai avrei pensato di diventare una donna picchiata. Pensavo che fossero quelle cose che capitano solo agli altri, o che si vedono in televisione. Chi era quell’individuo che avevo davanti? Dov’era finito il mio amato? Ho provato tutti i sentimenti possibili, dal terrore, all’odio, alla voglia di scappare, mi sembrava di vivere sotto un macigno.
Quel giorno mio marito ha perso il lavoro, infatti, anche lì era esploso e aveva minacciato un cliente. Rientrato a casa è crollato e ha incominciato a piangere e a raccontare.
Circa due anni fa una sera, dopo il lavoro, aveva incontrato un amico che non vedeva da tempo e insieme erano andati a bere qualcosa. Poi sono finiti in una casa da gioco. Mio marito che non aveva mai giocato a niente, neanche al lotto, aveva puntato qualcosina e si era divertito anche se non aveva vinto niente. Poi le visite al casinò sono diventate più frequenti, perdeva, vinceva ma le cose erano dentro un limite. Ma il limite ben presto è stato oltrepassato, i soldi accumulati in tanti anni di lavoro sono sfumati e mio marito giocava sperando di recuperarli. Poi quando ha finito i risparmi ha incominciato a usare i soldi dei pagamenti: tasse, affitto, cassa malati. Intascava i rimborsi delle fatture mediche e non le pagava e via di seguito. Per consolarsi del disastro beveva e cercava compagnie allegre, spendeva tutto quello che riusciva a racimolare.
Io lo stavo ad ascoltare e mi sembrava stesse raccontandomi la trama di un film, non riuscivo a crederci ma purtroppo le cose erano così e anche peggio.
Mi continuo a chiedere come ho fatto a non accorgermi di quello che succedeva, come ho potuto essere così cieca da non capire che mi raccontava un sacco di bugie? Cosa è scattato per farlo diventare così?
Ci conosciamo da quando eravamo ragazzi, abbiamo vissuto tanti bei momenti insieme, non ci mancava niente e ha rovinato tutto. Non è solo il fatto di aver perso tutti i soldi che avevamo, di avere debiti con tutti, la cosa più dura è che io non riesco più a fidarmi di lui e ogni giorno mi devo fare forza per non scappare ...


Fin qui la nostra signora, che abbiamo interrotto prima del finale, perché rimanesse aperto alla riflessione del lettore.
Del resto come lei stessa dice, questa situazione non si è conclusa ed è un processo lungo il suo recupero.
Al di là delle ovvie considerazioni sulle conseguenze di un gioco patologico sull’intero assetto famigliare del giocatore, possiamo fare qualche considerazione sul significato del giocare in questo modo nella nostra cultura contemporanea.

Sarebbe facile, infatti, soprattutto dopo una testimonianza come questa, condannare il giocatore, il gioco e chi lo propone.
In realtà saremmo ipocriti se non prendessimo in considerazione il legame fra questa forma eccessiva di rischio e di deresponsabilizzazione estrema con il clima culturale e la visione dell’uomo propagandata e promossa dalla cosiddetta "cultura dominante".
Che differenza c’è fra un giocatore che butta i risparmi della sua famiglia sul tappeto verde della roulette e un investitore che dirotta milioni di dollari da un mercato finanziario solo perché a brevissimo termine potrà realizzare un profitto investendoli su di un’altra moneta?
Perché dobbiamo considerare più malvagio un gestore di casa da gioco che non precisi sotto la sua insegna che chi vince sono in pochi e non vi sono regole per poter controllare il gioco e invece consideriamo una conquista di libertà il poter sottoporre una famiglia a numerosi tentativi di fecondazione assistita senza dire loro che la percentuale di fallimenti in questo campo è ancora elevata e che spesso il prezzo da pagare è alto, anche dal punto di vista economico?
Senza nulla togliere alle responsabilità personali, a noi sembra che il gioco d’azzardo e la sua promozione nei paesi occidentali siano semplicemente l’espressione di un modo di concepire i consumi e il rapporto dell’uomo con i beni fruibili, distorto da un’economia di mercato che tende a creare i bisogni più che a rispondervi.
Il vissuto emotivo del giocatore patologico non è molto diverso da quello che si insegna ai giovani in opuscoli per l’educazione alla prevenzione contro le malattie connesse con i comportamenti sessuali: anche con questi ultimi, infatti, raramente si riflette sulla necessità di approfondire il significato dei loro rapporti, vietato è discutere su questioni come fedeltà o impegno duraturo.
D’altra parte i meccanismi del gioco patologico rispondono proprio a quest’esigenza di vivere l’attimo e di viverlo intensamente.
Tornare a riflettere sul modello di persona che stiamo costruendo, potrebbe forse darci anche qualche strategia diversa per prevenire eventi tragici come quelli descritti dalla signora nella sua lettera.