KOSOVO il fattore Danubio
La lettura della crisi dei Balcani con Robi Ronza, direttore di Uomini e Storie, ospite di Caritas Insieme TV

Di Robi Ronza



Crisi dei Balcani. Probabilmente abbiamo l’impressione di sapere tutto, ma molte cose ci sfuggono. Se ci domandassimo per esempio: "Ma come mai è scopertine/coppiata questa guerra?" avremmo delle difficoltà a rispondere, a rispondere in modo serio.
Con Robi Ronza, abbiamo cercato di capire un po’ meglio come ci si è arrivati.
Robi Ronza è conosciuto in Ticino perché collabora con il Giornale del Popolo ed è direttore, in Italia, della rivista "Uomini & Storie", dove, fra l’altro, ha scritto un articolo molto interessante su alcuni aspetti nodali di tutta la vicenda, su perché il Kosovo.
Caritas Ticino ha ritenuto di dare spazio a Robi Ronza in quanto propone un'opinione su quello che sta succedendo in Kosovo, diversa dalle molte che ci sono sottoposte. Pone l'accento su un aspetto nuovo o perlomeno non valutato nelle discussione sulla guerra. Il fattore Danubio appunto. Danubio visto come strumento di sviluppo economico e dunque con coinvolgimento di interessi diversi.
Robi Ronza è stato intervistato da Roby Noris durante la trasmissione televisiva Caritas Insieme del 17 aprile scorso.

D: Una guerra non scopertine/coppia per caso, perché un bel giorno qualcuno ha deciso di dichiarare guerra a qualcun altro. Aiutaci a comprendere meglio quello che sta succedendo.
R:
Ho scritto di recente che questa guerra non è una guerra per il Kosovo, ma una guerra contro il Danubio. Da quando col finire degli equilibri di Yalta, si è riaperta la possibilità che il Danubio tornasse ad essere un grande asse di sviluppo dell’Europa Orientale, da quel momento sono cominciate crisi, in quella che noi chiamiamo oggi ex-Jugoslavia. Prima fra Croazia e Serbia, poi nella Bosnia, adesso nella Bosnia per il Kosovo, tesi che sostanzialmente servono a tenere chiuso il Danubio, perché esso, questa grande via d’acqua che è il Reno dell’Europa Orientale, passa da Budapest e passa da Belgrado. Serpeggia al confine fra Romania e Bulgaria, e sfocia nel Mar Nero. I tedeschi avevano preparato un grande canale navigabile che collega il Meno col Danubio in Baviera. Oggi sarebbe possibile far navigare navi fluviali di grande tonnellaggio da Amburgo fino al Mar Nero. Se questa via d’acqua si aprisse, molto dello sviluppo che adesso è concentrato sulla riva dell’Atlantico si sposterebbe nell’Europa interna, nell’Europa mediterranea, qualcuno non vuole che ciò accada. Allora si attivano delle guerre, si gettano dei fiammiferi nelle polveriere, naturalmente, non si gettano nell’acqua. Ma queste polveriere vengono fatte esplodere, così queste crisi vengono esacerbate.

D: Ma chi ha veramente interesse a non riaprire il Danubbio?
R:
È l’interesse nord-atlantico. L’interesse nord-atlantico è l’interesse che ha vinto la seconda guerra mondiale e fino al 1989-91, l’Occidente ha voluto dire nord-atlantico. Tanto è vero che tre dei maggiori Stati attorno alla Svizzera aderiscono ad una alleanza nord-atlantica. Fra questi la Germania e l’Italia che non si affacciano sull’Atlantico. Occidente ha voluto dire interessi nord-atlantici. Il finire dell’equilibrio di Yalta ha ricreato le condizioni perché in Europa di nuovo si compongono fra di loro, pacificamente, ma si compongono diversi interessi geo-politici: quello nord-atlantico, ma anche quello danubiano e quello mediterraneo. Non si vuole che avvenga questa distribuzione di interessi, si vuole continuare a mantenere polarizzato tutto l’Occidente solo sul nord-atlantico. Questa è la ragione ultima del conflitto. Ragione ultima, per cui delle situazioni difficili, invece di essere curate, vengono infiammate. Il mondo è come un corpo umano, ha dei punti fragili. Può avere dei punti malati. E certamente la Balcania è un punto malato, però invece che curarlo si è deciso d’infiammarlo.
Fermo restando le responsabilità immediate di quelli che sono in questa vicenda, in questo caso per esempio della dittatura di Milosevic, ci sono anche delle responsabilità a monte. Se si aizza il leone, lo si fa inferocire, poi si apre la gabbia, il leone sbrana. La responsabilità non è solo del leone, è di quelli che hanno aperto la gabbia, di quelli che l’hanno fatto inferocire, fermo restando che il leone è una belva. Ma questo non spiega tutta la storia. Non c’è bisogno di dire in Svizzera che l’eterogeneità culturale e linguistica non è affatto qualcosa che condanna alla discordia, al sottosviluppo. La Svizzera è il Paese più ricco del mondo, ed è un paese eterogeneo linguisticamente e culturalmente.

Il finire dell’equilibrio di Yalta ha ricreato le condizioni perché in Europa di nuovo si compongoano fra di loro, pacificamente diversi interessi geo-politici: quello nord-atlantico, ma anche quello danubiano e quello mediterraneo. Non si vuole che avvenga questa distribuzione di interessi, si vuole continuare a mantenere polarizzato tutto l’Occidente solo sul nord-atlantico. Questa è la ragione ultima del conflitto. Ragione ultima, per cui delle situazioni difficili, invece di essere curate, vengono infiammate

D. Quindi la lettura sulla crisi dei Balcani, dovuta a questa difficile convivenza, è assolutamente non attendibile?
R:
Io direi, che più che mai stando in Svizzera, come si fa ad accettare una lettura di questo genere. È vero che costruire queste convivenze non è facile, i Cantoni svizzeri si sono fatti tante guerre fra di loro e l’ultima è avvenuta cento anni fa. Quindi la pacificità della Svizzera è una cosa molto recente. Però la Svizzera ha sempre costruito su queste eterogeneità. Ora come si è costruito sull’eterogeneità qui, si può costruire anche da un’altra parte.
I Balcani sono stati fatti diventare una polveriera, ma non sono una polveriera per natura. Faccio un confronto, che mi sembra interessante. La Cecoslovacchia si è dissolta, ma la Germania è intervenuta per evitare che la dissoluzione della Cecoslovacchia finisse in catastrofe e ha pilotato questa dissoluzione. Purtroppo l’Italia, che aveva potenzialmente lo stesso ruolo verso la Jugoslavia, non si è assunta la medesima responsabilità. Invece di pilotare questa inevitabile dissoluzione, è rimasta assolutamente neutra e questa dissoluzione, in larga misura per responsabilità italiana, ha cominciato a degenerare. Quando una situazione degenera, poi interviene il peccato originale, la fragilità della gente di fronte al male. E nelle guerre tutti si massacrano, tutti si violentano, tutti si saccheggiano, di più o di meno secondo l’atteggiamento delle autorità militari di ogni parte, talvolta sistematicamente. L'atrocità non è qualche cosa che caratterizza solo la guerra dei cattivi. Purtroppo la guerra sfocia sempre in atrocità. Quindi l’unico modo per non causare atrocità è non fare la guerra. E si poteva non farla.

Se si aizza il leone, lo si fa inferocire, poi si apre la gabbia, il leone sbrana. La responsabilità non è solo del leone, è di quelli che hanno aperto la gabbia, di quelli che l’hanno fatto inferocire, fermo restando che il leone è una belva

D: Cerchiamo di capire perché si poteva non farla. Un anno fa per esempio, Mons. Pero Sudar, vescovo a Sarajevo diceva: "Il prossimo guaio sarà appunto il Kosovo". È come se tutti aspettassero questa guerra.
R:
Il Kosovo è certamente un caso delicato, perché è un Paese a larghissima maggioranza albanese, che però ha un’importanza simbolica, rilevantissima per i serbi. E’ un territorio che è stato popolato da albanesi, a seguito di una sconfitta dei serbi da parte dei turchi. La sede storica del patriarcato serbo è nel Kosovo. Quindi è un caso in cui da un lato chi abita un certo territorio lo rivendica come proprio, dall’altro chi non vi abita lo rivendica ugualmente come proprio per delle ragioni simboliche. In Italia c’è un caso analogo, che è l’Alto Adige Sud-Tirol. Una provincia di lingua tedesca, tirolese di lingua tedesca, che l’Italia ha voluto annettersi nel 1918 per delle ragioni simboliche, che io personalmente non condivido, ma che sono condivise da molti, e questa questione era potenzialmente una forte causa di flessione, di dissenso, di discordia dentro l’Europa, È stata risolta con uno statuto speciale, internazionalmente garantito, in forza del quale l’Italia ha una sovranità limitata nella provincia di Bolzano, perché non può modificare lo status quo delle leggi fondamentali senza l’accordo dell’Austria. La popolazione è a maggioranza di lingua tedesca della provincia, è garantita nei suoi diritti culturali da questo patronato dell’Austria. Così si è riusciti a giungere ad un ragionevole compromesso fra la volontà italiana di conservare questa provincia dentro i propri confini e il desiderio della popolazione locale maggioritaria di essere invece inclusa da un’altra parte. Qualcosa del genere si poteva fare per il Kosovo. L’Austria e l’Italia avrebbero potuto benissimo, insieme, proporre questa esperienza e questo non è stato fatto. Questa era la grande carta che l’Italia poteva giocare. Una proposta concreta, originale, sperimentata e non l’ha fatto. Quello che non ha fatto l’Occidente nel suo insieme è stato di, tempestivamente sostenere il grande movimento di resistenza non violenta di matrice gandhiana, che Ibraim Rugova ha avviato nel Kosovo nel 1989. Si è voluto isolare questo movimento senza dargli nessun appoggio internazionale, in modo che emergesse l’alternativa catastrofica dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK). L’UCK fino a pochi anni fa era un movimento del tutto emarginato, fino a quando ha iniziato, nel gennaio del 1998, una catastrofica azione di guerriglia. Si tratta di un movimento castrista con 40 anni di ritardo, che ignorando l’esperienza dell’America Latina, crede ancora che con la lotta armata si possa ottenere l’indipendenza di un popolo, a fronte di un potere militare molto più forte.
Questa azione di guerriglia era ciò che la Serbia aspettava, perché ha fatto detonare una repressione militare molto violenta. E questo ha innestato la spirale che alla fine è sfociata in questo intervento della NATO assolutamente sconsiderato, perché fare degli attacchi aerei garantendo che non si farà mai nessuna invasione terrestre, equivale a suggerire a coloro che sono oggetto di questi attacchi di vendicarsi sulle popolazioni civili, in nome delle quali si fa l’attacco. E’ questo che è accaduto matematicamente. Ma era inevitabile. Si è aperta la gabbia e si è aizzato il leone. Il leone sbrana la gente, si fanno le foto degli sbranati e si dice: "Vedete come è cattivo il leone?".

D: Ci siamo chiesti, credo che in molti se lo siano chiesto, se queste immagini drammatiche di sofferenza non potessero essere strumentalizzate, non potessero servire alla logica della guerra, non potessero servire a giustificare gli attacchi della NATO.
R:
Il tragico è questo: le foto sono vere. Talvolta sono arretrate nel tempo, ma sono vere. E questa gente veramente è stata massacrata, è stata assassinata, è stata cacciata dalle sue case. E questo è un fatto. L’altro fatto è: che uso si fa di queste immagini. O perché si fa vedere con tanta insistenza questa tragedia e non si fa vedere invece la persecuzione dei Curdi della Turchia, i quali hanno subito repressioni e violenze maggiori degli Albanesi nel Kosovo, ma nessuno lo vede perché i Curdi della Turchia vengono perseguitati da un governo che è alleato degli Stati Uniti e quindi non hanno l’onore della platea televisiva. Quindi siamo sempre di fronte alla realtà del dolore e dell’ingiustizia nei confronti delle persone, che è vera, nello stesso tempo dell’uso che può essere fatto di queste immagini.

D: È una guerra di immagini. Il termine wargames, è forse quello più appropriato; se nella guerra del Golfo avevamo le immagini della CNN, che dicevano poco ma qualcosa dicevano, qui addirittura abbiamo solo le immagini filtrate dalla televisione serba. Addirittura poi internet ci ha immesso in un mondo di guerra virtuale che ha veramente dell’incredibile.
R:
Questo se vogliamo è tragico. Viceversa c’è un fatto sorprendente, senza precedenti storici, la possibilità della gente della Serbia, a mezzo di internet, di mettersi a dialogare con gente dei paesi della NATO. Non è mai accaduto che gente comune di due forze in guerra, l’una contro l’altra, potessero parlarsi in questa maniera. Questo è un elemento positivo. Ma direi che questi aspetti, così preoccupanti per un verso, sono preoccupanti nella misura in cui le persone hanno perso la capacità di immaginarsi la realtà sono strumenti interessanti, sorprendenti. La cosa è drammatica se vengono scambiati per la realtà. Mentre sono strumenti. Se uno usa di questi strumenti per immaginarsi la realtà, immaginarsi come è realmente, come può essere anche lo stato d’animo, sia di chi è nei rifugi, sia di questi giovani piloti che sono chiamati a fare questa operazione in questo modo tecnologicamente così, come dire, disincarnato, salvo poi come è successo nella guerra del Golfo quando vengono colpiti, si paracadutano e improvvisamente tornano nel mondo normale, sono come dissestati dal fatto che se ne scopertine/coprono improvvisamente quali sono le conseguenze reali delle loro iniziative. Allora l’importante nei confronti di questi mezzi è recuperare la capacità di immaginarsi. La capacità di immaginarsi che avevano i nostri vecchi, la dobbiamo ritrovare anche noi. Una volta era comune che bisognava immaginarsele le cose. Uno vedeva un affresco in una Chiesa e si immaginava sullo spunto di quel simbolo. Bisogna usarle così e ricuperare la qualità di immaginarsi. Immaginarsi anche la paura, il dolore, il danno, la distruzione, le conseguenze che può avere sulla vita di una città il taglio di un ponte che collega i due lati. Ecco, bisogna recuperare questa capacità di immaginarsi. Se si recupera questa capacità, si è liberi nei confronti della possibile alienazione che causano questi mezzi, che si possono dominare tranquillamente.

D: Come possiamo esercitare una solidarietà che non caschi nel pietismo inefficace, ma riuscire attraverso una tragedia, che ci è portata in casa a maturare in una cultura della solidarietà, che è anche capacità di giudizio politico?
R:
La popolazione del Kosovo è stata messa in diaspora, come giustamente ha fatto presente un giornale che non si può certamente considerare sospetto di non essere filo-atlantico, cioè l’Economist inglese, che ha fatto vedere il primo piano di un volto impaurito di un profugo kossovaro descrivendolo come una vittima della NATO in Serbia. Nel senso che questi sono stati messi in diaspora, sono stati cacciati dalle loro case e dalle conseguenze combinate di due poteri che hanno operato in modo irresponsabile. Il regime serbo e la NATO. Detto questo, questa gente è realmente per strada, è realmente abbandonata, è realmente soggetta a taglieggiamenti, ecc. Allora di qui la necessità, il dovere, di fare il possibile per aiutarli e di farlo nel modo più efficace possibile. Questa, che tu sai come addetto ai lavori, è un’operazione complessa. È un’operazione complessa, tanto più in situazioni come quelle della regione di cui parliamo, che è una regione estremamente povera di infrastrutture e povera di mezzi. Si tratta di fare delle operazioni, diciamo che siano di intelligente carità. Non possiamo qui dettagliarle, il punto di partenza è sempre quello di pensare che quelli sono uomini come noi, uomini e donne come noi. Di che cosa hanno bisogno? Di che cosa avremmo bisogno noi se improvvisamente, con venti minuti di preavviso, dovessimo lasciare le nostre case di corsa e partire? Qualcuno di noi a causa di questo perderebbe la vita. Perché se arrivasse una forza che ordina agli abitanti di Lugano, di lasciare Lugano entro venti minuti, questo provoca già 3/400 morti. Persone non trasportabili, persone handicappate che restano indietro e possono venire travolte, bambini che portati improvvisamente all’aperto si ammalano. Proviamo a confrontare la nostra situazione, immaginiamo di essere noi in questa situazione e immaginiamo di che cosa potremmo avere bisogno. Questo mi sembra il sistema migliore per immaginare un aiuto concreto. Poi bisogna lasciare che i tecnici facciano la loro parte, perché è complicato questo, ma la sostanza è questa.