Giacinta e Francesco Marto
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Di Patrizia Solari



Questa volta vi propongo di fermarci a guardare i bambini. Per me è ritornare all’esperienza della mia infanzia, quando frequentavo le elementari dalle suore di Menzingen, le quali ci raccontavano le storie dei santi (san Tarcisio, santa Bernadette...), o ci facevano vedere le "filmine". E ricordo ancora il film in bianco e nero sui pastorelli di Fatima. Giacinta e Francesco Marto, come tutti ormai sanno, sono i pastorelli che, insieme alla cugina Lucia, videro la Madonna nel 1917 e che, lo scorso 13 maggio, Giovanni Paolo II ha proclamato beati.

Non racconteremo per esteso la loro storia, per altro semplice e simile a quella di migliaia di altri bambini, ma ci soffermeremo su alcune osservazioni e alcuni punti descritti dalla loro cugina Lucia.

Francesco muore per la febbre spagnola, il 4 aprile del 1919, a dieci anni. Giacinta lo raggiunge dieci mesi dopo, all’età di nove anni, il 20 febbraio 1920. "La fama di santità" dei due pastorinhos aveva già fatto il giro del mondo subito dopo la loro morte. Ma se non fosse stato per i ricordi scritti lasciati da Lucia sulla loro breve vita, forse nessuno avrebbe pensato di aprire una causa di beatificazione, anche perché a quei tempi la Congregazione delle cause dei santi non aveva ancora decretato il riconoscimento di "esercizio delle virtù in grado eroico" per i bambini (vedi riquadro a pag 47). I processi vennero infatti avviati solamente nel 1952. 1

Dopo 15 anni dalla sepoltura, nel 1935, i resti di Giacinta vennero portati dal comune di Vila Nova de Ourém a Fatima, mentre era stata persa la memoria del punto esatto della sepoltura di Francesco. Quando venne aperta la bara "si vide che il corpo della bambina era rimasto incorrotto. Venne scattata una fotografia e il vescovo di Leiria-Fatima ne mandò una copertine/copia a Lucia, divenuta nel frattempo suora Dorotea. Fu questa occasione che indusse il vescovo a ordinare a Lucia di scrivere tutto quello che sapeva sulla vita di Giacinta. (...) Successivamente lo stesso vescovo le ordinò di scrivere i suoi ricordi su Francesco e sui fatti avvenuti a Fatima. Il linguaggio di queste memorie è semplicissimo, a volte sgrammaticato, così come semplicissimi e assolutamente normali erano i due ragazzini."


Bambini come tutti

Vediamo allora alcuni brani del racconto che Lucia fa. Ecco l’inizio: "Eccellenza reverendissima, prima dei fatti del 1917, tranne i legami di parentela che ci univano, nessun altro affetto speciale mi faceva preferire la compagnia di Giacinta e Francesco a quella di qualsiasi altro bambino. Anzi, la compagnia di Giacinta diventava a volte assai sgradevole, per il suo carattere troppo permaloso. (...) Francesco invece non pareva fratello di Giacinta, se non nei tratti del volto. Non era come lei capriccioso e vivace. Era, al contrario, di natura pacifica e arrendevole. Giocava con le lucertole e i serpenti, li faceva arrotolare attorno a un bastone e poi li infilava nelle cavità delle pietre. Gli piaceva suonare il piffero e anche giocare a briscola, ma perdeva quasi sempre. (...) Diceva sempre ‘Lascia perdere... a me che m’importa!’ E la sua natura pacifica eccitava, a volte, i nervi della mia eccessiva vivacità."

Dopo l’esperienza degli incontri con "quella signora", quando Francesco si ammala, ecco che cosa racconta Lucia: "Durante la malattia i bambini entravano e uscivano dalla sua stanza con la più grande libertà; gli parlavano dalla finestra (...). Davanti alle persone grandi che lo andavano a trovare stava in silenzio e rispondeva a quello che gli domandavano con poche parole. Alcune vicine commentavano un giorno con mia zia e mia madre, dopo essere state un bel pezzo nella stanza di Francesco: ‘È un mistero che non si riesce a capire! Sono bambini come gli altri, non dicono niente, e vicino a loro si sente un non so che differente da tutti gli altri!’ E questo lo diceva una vicina di mia zia di nome Romana, che diceva di non credere assolutamente nei fatti."

Tutto era iniziato il 13 maggio del 1917, quando i tre cugini, come sempre, si erano recati in un campo chiamato Cova da Iria per pascolare le pecore. Ma siccome avevano visto dei lampi, si stavano affrettando verso casa. Ecco ancora che cosa racconta Lucia: "Arrivati all’incirca a metà pendìo, quasi vicino a un grande leccio che c’era lì, vedemmo un altro lampo e, fatti alcuni passi più avanti, vedemmo sopra un’elce una signora, era vestita di bianco e diffondeva una luce più chiara del sole... Sorpresi, ci fermammo. Eravamo così vicini che ci trovavamo dentro alla luce che la circondava o che lei diffondeva. Forse a un metro e mezzo, più o meno, di distanza. Allora quella signora ci disse: ‘Non abbiate paura. io non voglio farvi del male’. ‘Di dove siete?’, le domandai. ‘Sono del cielo’. ‘E che cosa volete?’. ‘Sono venuta a chiedervi che veniate qui sei mesi di fila, il giorno 13 a questa stessa ora. Poi vi dirò chi sono e cosa voglio. Tornerò qui ancora una settima volta’. ‘E anch’io andrò in cielo?. ‘Sì. Ci andrai’. ‘E Giacinta?’. ‘Sì. Ci andrà anche lei’. ‘E Francesco?’. ‘Pure, ma dovrà recitare molti rosari’. Poi ci disse di recitare il rosario tutti i giorni e che avremmo avuto molto da soffrire ma che la grazia di Dio sarebbe stata il nostro conforto."

Lucia, durante tutte le apparizioni, poteva sentire e parlare, mentre Giacinta poteva solo sentire e Francesco vedeva soltanto e, quando le due bambine gli riferirono quanto la signora aveva detto, esclamò: "Se mi porta in cielo, io di rosari ne dico quanti gliene pare!". Di fatto i bambini avevano già l’abitudine di recitare spesso il rosario, ma, come riferisce Lucia: "siccome era troppo lungo e questo ci rubava troppo tempo da dedicare al gioco, avevamo trovato il modo di cavarcela in fretta: si passava i grani dicendo soltanto: ‘Ave Maria, Ave Maria, Ave Maria...’. Arrivati alla fine del mistero, dicevamo, con una buona pausa, la semplice parola ‘Padre nostro’. Così in un batter d’occhio, il nostro rosario era bell’e detto!" Nei giorni seguenti la prima apparizione Giacinta, che allora aveva sette anni, non smetteva di ripetere: "Oh ma che bella signora! Quant’era bella! Hai visto com’era buona. Subito ci ha promesso di portarci in cielo..." e poi aggiungeva: "Ora quando diciamo il rosario dovremo dire l’Ave Maria intera e pure il Padre nostro intero."


Le sofferenze

Poi vennero anche i momenti difficili. Durante i mesi delle apparizioni, pur essendosi ripromessi di non dire niente a nessuno, la notizia si era diffusa e "andava sempre più aumentando il numero di persone che si recava sul luogo delle apparizioni e con esso aumentavano anche la curiosità ossessiva della gente, le opposizioni, le pressioni e gli interrogatori. ‘Eravamo come una palla in mano a dei ragazzi’ ricorda Lucia ‘e a tutto questo cercavamo di sottrarci con ogni astuzia e con la fuga’. Gli interrogatori poi, specialmente quando a farli erano dei sacerdoti (‘se ci vedevamo alla presenza di un sacerdote ci preparavamo per offrire a Dio uno dei nostri maggiori sacrifici’), erano per i ragazzini una vera e propria tortura, anche perché la Madonna aveva confidato loro segreti chiedendo di non rivelarli a nessuno. Le loro stesse famiglie cominciarono a mostrarsi ostili." Soprattutto la madre di Lucia rimproverava e picchiava la figlia. E aveva le sue ragioni. "La gente, infatti, per radunarsi là, calpestava i raccolti che servivano per il sostegno della povera e numerosa famiglia che in seguito a questi fatti fu costretta a vendere il gregge, piombando nella più nera miseria."

Finché le autorità civili, preoccupate dai disordini che simili raduni potevano provocare, prima dell’apparizione del 13 agosto fecero rinchiudere in prigione i bambini. "Arrivati alla prigione, vedendo che sua sorella piangeva a dirotto (Francesco) si tolse il berretto e si inginocchiò a terra. L’agente di custodia, a vederlo in questo atteggiamento, gli disse: ‘Cosa stai facendo?’. ‘Sto dicendo un’Ave Maria perché Giacinta non abbia paura’. I detenuti presenti a questa scena s’intenerirono e restarono in silenzio, qualcuno si mise in ginocchio, mentre noi dicevamo il rosario." Arrivato il giorno 13, Giacinta si preoccupava perché non avrebbero potuto essere all’appuntamento, ma alla fine il sindaco, dopo tante minacce, spiazzato dalla disarmante semplicità dei bambini, li rispedì a casa.

Dopo che la Madonna, nell’appuntamento del 13 luglio, aveva mostrato loro la visione dell’inferno, i bambini erano rimasti molto colpiti e le loro preghiere per i peccatori e per consolare Gesù e Maria "tanto tristi" si erano fatte più assidue.

"La gente continuava a cercarli. Erano anche poveri cristi, gente semplice, del popolo, che si raccomandava alle loro preghiere. Giacinta mostrava pena se si trattava di qualche grande peccatore. Francesco, se lo chiamavano per parlare con qualche persona, domandava se erano malati e diceva: ‘Se sono malati io non ci vado. Non riesco a guardarli, ché mi fanno troppa compassione, però ditegli che io prego per loro’."


Verso il cielo

Francesco si ammalò nell’ottobre del 1918. "Alla vigilia di morire" scrive Lucia "mi disse: ‘Senti! Io sto molto male, ormai mi manca poco’. ‘Allora sta bene attento’ gli dissi ‘non ti dimenticare di pregare molto per i peccatori, per il Santo Padre, per me e per Giacinta’. ‘Va bene, io pregherò, ma senti, queste cose qui chiedile a Giacinta, perché io ho paura di dimenticarmene, quando vedrò nostro Signore. E poi, prima di tutto, lo voglio consolare."

Il giorno prima di morire Francesco aveva chiesto a Lucia di andare in chiesa a pregare "Gesù nascosto" per lui e di domandare al priore di venire a confessarlo e a portargli la comunione, che fino a quel momento gli era stata negata.

La sua prima comunione fu il suo viatico. "Quando tornai da lui quella sera" scrive ancora Lucia "era tanto contento per aver fatto la sua prima comunione (...) non poteva più pregare e così ci chiese di recitare noi il rosario per lui. Dopo gli chiesi: ‘Non vuoi nient’altro?’. ‘No’, rispose con un fil di voce. Poi mi prese la mano e la strinse guardandomi con le lacrime agli occhi..." Morì in quella notte. Nel 1952 venne ritrovata la sua tomba e fu proprio un rosario a permettere al padre di riconoscere i resti di suo figlio: era la corona di centocinquanta grani, come si usavano in Portogallo, voluta da Francesco prima di morire. Il padre "riferì che il piccolo diceva che, se per caso la Madonna si fosse dimenticata di lui, andando di là con quella corona stretta sul cuore Lei lo avrebbe di certo subito riconosciuto."

Anche Giacinta si ammalò di febbre spagnola, che degenerò in pleurite purulenta e la bambina dovette essere portata in diversi ospedali. Lucia racconta che un giorno Giacinta era molto disperata perché la Madonna le aveva detto che sarebbe morta sola, a Lisbona. "Per incoraggiarla le dicevo. ‘Ma che cosa t’importa di morire sola se tanto viene Lei a prenderti?’. ‘È vero. Ma non so com’è. A volte non mi ricordo che Lei viene a prendermi, solo mi ricordo che muoio sola." E quando morì sola aveva da poco compiuto i nove anni.


1. Le citazioni sono tratte da Stefania Falasca "Io speriamo che me la cavo" - Nuovi beati in 30giorni n.3 - marzo 2000
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