EDUCARE AD EDUCARSI
In trappola
Il tema della violenza famigliare di questa "lettera" è l'oggetto del dossier "Donne e parità" delle pagine seguenti


Di Carlo Doveri

LETTERE ALLA REDAZIONE

Nel servizio sociale ci troviamo spesso confrontati con situazioni di tensione famigliare altissima dalle quali sembra non ci sia via d’uscita. Ad esempio donne picchiate dal marito che rimangono con lui o donne che si ritrovano piene di debiti causati dal marito che non ha pagato i conti o ha perso tutto al gioco ma non osano mettere dei punti fermi, compagne di dipendenti dall’alcool o dal gioco che pur lamentandosi continuamente del vizio del marito non riescono a scuotersi dalla loro situazione. Perché queste donne accettano di vivere in tal modo?
Come fare ad aiutarle ad uscire e trovare una soluzione a un problema quando non riconoscono la responsabilità del partner o di loro stesse?
Qual è il prezzo che i figli pagano crescendo in una famiglia come questa? Sono cose che si trascinano da generazioni o ci sono dei cambiamenti in atto?


La lettera di questo numero pone un tema che mette molto in difficoltà tutti gli operatori sociali o chiunque, sia esso terapeuta, medico, educatore, incontri queste situazioni "disperate". Sono situazioni in cui la sensazione d’impotenza, del trovarsi in un vicolo cieco, senza alternative, domina il nostro lavoro. La domanda che accompagna la nostra impotenza è quella che lei si pone per prima: - Perché queste persone accettano di vivere in questo modo? - Infatti, il buon senso direbbe che a tali situazioni di violenza o di miseria psicologica bisognerebbe sottrarsi e soprattutto bisognerebbe sottrarvi i bambini. Eppure queste donne e uomini che accettano di vivere in tali condizioni non sono pazzi. Quando si parla con loro, essi stessi capiscono la gravità della situazione, condividono le nostre analisi, ma non riescono a sottrarvisi. In molti casi queste persone consiglierebbero ad altri di agire mentre essi non riescono a farlo per le loro situazioni.
In ciò riconosciamo un fatto comune ai più, anche a noi operatori, vale a dire un’estrema sicurezza riguardo all’altrui vita ed una confusione riguardo alla propria.
Su questi temi ci sono notevoli contributi teorici provenienti dal campo della psicologia e della psichiatria, ma sarebbe veramente troppo lungo riassumerli in questa sede.
Quello che mi sembra importante rilevare è che non ci troviamo di fronte a dei marziani che agiscono in modo incomprensibile. Sono persone come noi, che per anni hanno vissuto assieme in modo accettabile, che hanno iniziato una vita assieme con dei progetti condivisi, che si amavano e, per quanto strano possa sembrare, si amano ancora.
Certamente ritroviamo anche situazioni nelle quali è possibile reperire già all’inizio del rapporto di copertine/coppia, o ancora prima, nell’infanzia dei singoli, dei grossi problemi che spiegano le situazioni attuali, ma ciò non ci aiuta molto nella ricerca di soluzioni.
La situazione si complica ulteriormente se non siamo in grado, come operatori, di tenere in debito conto le nostre frustrazioni e la rabbia che le frustrazioni normalmente generano. Assistiamo sovente ad una progressiva disaffezione nei confronti di quelle situazioni che non progrediscono nel senso da noi auspicato. L’operatore dovrebbe conoscere questi fenomeni ed essere lui stesso aiutato da un collega in modo da distinguere, negli interventi che mette in atto, ciò che è frutto di risentimento e ciò che è professionalmente corretto.
Cosa fare in questi casi non è facile da dire. Sembra sempre di cavarsela a buon mercato sostenendo che ogni situazione è unica e va affrontata, almeno in linea di principio, diversamente dalle altre, ma è proprio così.
A volte si agisce bene forzando lo scopertine/coppio di una crisi che rimetta tutto in discussione. Altre volte dobbiamo allontanarci affinché le persone si decidano esse stesse a chiedere nuovamente e seriamente un aiuto. In altri casi un accompagnamento paziente e costante è la strategia più adeguata alla situazione.
Lo scopertine/copo del nostro lavoro è certamente quello di portare ogni singolo membro della famiglia a definirsi in rapporto alla situazione, a dire ciò che veramente vuole, ad accettare di assumersi le proprie responsabilità, sapendole distinguere da quelle dell’altro.
Mi si chiede quale sia il prezzo che i bambini pagano in queste situazioni.
A volte si tratta di un prezzo altissimo, che si paga per tutta la vita. Non a caso invocavo sopra, come causa di grosse patologie famigliari, il fatto di aver già vissuto nell’infanzia situazioni di grave tensione e violenza all’interno della propria famiglia di origine.
Comunque nessun bambino esce indenne da anni di violenza fisica o psichica. In questo senso si può parlare di fenomeni che si trascinano per generazioni.
Ce ne accorgiamo ogniqualvolta ascoltiamo le storie personali che gli utenti dei nostri servizi ci raccontano. La frequenza di persone che si rivolgono a noi con un passato di sofferenza è molto alta e questo ci dimostra quanti danni si subiscano vivendo in una famiglia disturbata.
Certamente non tutto è pregiudicato da un’infanzia vissuta in mezzo ai problemi. Gli incontri successivi, nella scuola, nel mondo del lavoro, nei rapporti affettivi, possono in parte rimediare alle ferite dell’infanzia.
Resta che, laddove ci sono di mezzo dei bambini, non bisogna cedere troppo in fretta le armi. L’intervento dovrebbe essere proseguito soprattutto come prevenzione nei confronti dei minori, individuando forme, seppur minime, di attenuazione della violenza famigliare, offrendo, almeno ai bambini, degli appoggi sui quali contare quando stanno male.
A volte bisogna saper essere duri con la famiglia in nome della salvaguardia della salute fisica, ma soprattutto psichica dei bambini, perché un bambino psichicamente normale avrà molto meno possibilità di ripetere, da adulto, gli stessi comportamenti che ha vissuto, come vittima, da piccolo.