Kismaros AGNESE una vita per Dio

A cura di Dani Noris



La storia di Madre Agnese, badessa del monastero cistercense a Kismaros in Ungheria, nato in circostanze incredibili: alcune giovani donne che rispondono alla chiamata del Signore che le ha raggiunte durante gli anni in cui il regime comunista perseguitava chiunque affermasse la propria fede.

Sono rimasta orfana dopo l’assedio di Budapest. Se la famiglia di Padre Edmond Lénard non fosse venuta in mio soccorso, non so cosa mi sarebbe successo. Non avrei potuto fare la maturità, né entrare all’università. Sono molte le cose che possono capitare a una ragazza di 16 anni, sola, a Budapest.
Ho avuto appena il tempo sufficiente per pronunciare i miei voti perpetui prima della soppressione delle congregazioni e degli ordini religiosi. Se avessi aspettato - e ogni persona ragionevole avrebbe detto che avrei dovuto prima finire gli studi che avevo incominciato alla Scuola Politecnica che duravano 4 anni e me ne mancavano 2 - se avessi aspettato non avrei più potuto diventare monaca nel senso canonico del termine.

Avevo un locale in subaffitto a Budapest e prima una, poi due, poi tre ragazze sono venute a trovarmi dicendomi: "Vogliamo farci monache". Allora ho preso la Regola di San Benedetto in mano dicendo: "Cominciamo". Ho spiegato la regola, abbiamo trovato un alloggio e abbiamo iniziato ad abitare insieme. Tutto avveniva nella semplicità della vita quotidiana. Non c’erano piani, nessuna previsione né decisioni a lungo termine. Di fondare un ordine religioso non se ne poteva nemmeno discutere. C’era soltanto la chiamata di una giovane che domandava una risposta. Abbiamo risposto insieme perché il richiamo vocazionale è un richiamo comunitario.
Dopo qualche anno eravamo una dozzina, in seguito siamo cresciute con un ritmo lento e adesso siamo 16. Ci sono state molte giovani che hanno tentato, ma la nostra vita non è facile ed è molto esigente. Infatti due fili conduttori paralleli attraversano la nostra esistenza: un’esigenza rigorosa e forte e una carità calorosa e personale, umana. L’equilibrio fra i due non è immediato.

Nel 1961 ci fu una grande ondata di arresti. Sono stata aiutata molto dal fatto di vedere che non era una questione riguardante la mia persona. La posta in gioco era un’ altra. La paura incomincia quando si pensa che si tratti di se stessi, ma se si sa che è un attacco più allargato è più facile da sopportare. Bisogna riconoscere, in effetti, che era ridicolo che una dozzina di ragazze potessero rovesciare il regime con la loro preghiera. Avevo 27 anni, la più giovane fra noi 18.
Non ero io presa di mira, non erano i preti, né il vescovo, né il Papa, era il Signore stesso, e poiché la mia vocazione non mi era stata data da un uomo, Colui che mi aveva chiamata avrebbe anche sistemato le cose.
In fondo cosa poteva succedere? Sì, puoi morire, ma ogni uomo deve morire e chiunque muore una volta sola, quindi, in fin dei conti i rischi umani non erano più di tanto.

Ciò che ho capito con maggior chiarezza in prigione è che ovunque ci sono degli uomini per i quali Cristo è morto. Cristo è morto per ognuno di essi, senza eccezioni. Io ero in carcere con delle prigioniere politiche e di diritto comune. Queste donne venivano da situazioni tremende e erano in uno stato di degrado indescrivibile. Qual è la famiglia che lascia, durante una rivoluzione, andare in giro, sole, delle ragazze di 16 o 17 anni? Le detenute per ragioni politiche, prigioniere condannate a vita o alla pena di morte (pena mutata a 15 anni) erano state delle bambine abbandonate alle cure dello Stato, oppure prostitute senza nessuna protezione famigliare. Cristo è morto per loro come per tutti gli altri.

Un’altra cosa che ho imparato in prigione è che la preghiera ha una forza tale che non ce ne rendiamo neanche conto. Quando Moni, una mia consorella, mi ha inviato l’Eucarestia nascosta fra la mia biancheria e io l’ho ricevuta, fu il miracolo dei miracoli. C’erano tre ostie che mi sono bastate dalla fine di febbraio alla Pasqua. L’ultimo frammento fu consumato in quel momento. E’ stata Moni che è riuscita con la preghiera a far in modo che io potessi ricevere le ostie dentro un fazzoletto. In prigione non si poteva far entrare niente clandestinamente. Questo è stato un momento di unione indicibile con il Cristo e di unione nella carità fra quelle che erano dentro e quelle che restavano fuori. .. una forza inesprimibile.
Io lo sapevo, credevo nella forza della preghiera, per questo sono diventata monaca, ma vivere l’esperienza che Cristo condivide la mia prigionia, che mi ha seguito, che è accanto a me, sapere che le mie suore rimaste fuori, respirano con me, che viviamo le une delle altre ...che esperienza forte e profonda. Sai che non sei sola. Il tuo Cristo è con te, le tue sorelle sono con te, non è una presenza fisica di luogo e di spazio, benché possa anche esserlo. E’ un’unità tale che non si può misurare, unità della trascendenza, della comunione dei santi, la comunione nel combattimento e della Chiesa gloriosa, tangibile, vera e non solamente insegnata dai libri dogmatici. Questa comunione esisteva già prima della prigionia e se Moni non fosse stata quella che era, la prima incarcerazione avrebbe probabilmente sciolto la comunità.
Durante la mia seconda prigionia, la comunità ha continuato senza di me e sono persuasa che al momento della mia morte, quando sarò faccia a faccia con il Signore, ognuno continuerà in pace la sua vita.
Oggi la situazione della comunità è canonicamente regolata, e nel 1993 il monastero è diventato un’abbazia.



Un ricordo doloroso

Ho passato sette mesi in una prigione preventiva. Furono tempi duri. Tuttavia non mi viene in mente niente di cui aver vergogna davanti a Dio o agli uomini. Tutti noi viviamo della misericordia, e vi racconto volentieri una storia, perché è profonda e vera. Quando il tempo della detenzione preventiva fu concluso, fummo trasferiti alla prigione di Kalocsa.
L’arrivo in prigione ha i suoi riti, come depositare gli oggetti civili e ricevere il vestito a righe. Dopo tutto quello che era successo nei sette mesi precedenti eravamo nuovamente insieme, con gli altri condannati a causa della Chiesa. Ci siamo riabbracciati con grande gioia, con i nostri abiti completamente consunti, simili a un’armata vinta. Ci hanno fatto scendere in cantina dove si trovava una condannata all’ergastolo, probabilmente una criminale, una vecchia sdentata, con il vestito a righe stirato, modo provocatorio in prigione di manifestare una certa eleganza.
Fra le prigioniere lei era incaricata di annotare gli oggetti che mettevamo nei sacchi di canapa. Ad un tratto qualcosa si è spezzato dentro di me. Durante il mio soggiorno in prigione, più tardi durante gli interrogatori e più tardi ancora spesso l’eco delle parole del Vangelo, durante il processo a Gesù, sono risuonate dentro di me "Ecce Homo", come se il tempo avesse preso le distanze.
La voce sguaiata della serva ha gridato: "Anche tu appartieni a Gesù di Nazareth? Pietro ha risposto: No.
L’inserviente buttava con disprezzo la blusa, le calze, i fazzoletti. Io sapevo che fra il fazzoletto e il pullover avrebbe trovato un rosario. Come avrebbero sghignazzato le donne. Un sudore freddo mi ha invaso. Avrebbero deriso il Cristo e a me avrebbero chiesto "Tu, tu appartieni a Quello?". Le mie dita cercavano febbrilmente, il metallo della croce mi ha bruciato il palmo, la medaglia attaccata al rosario mi ha graffiato. Stava arrivando il mio turno. Allora le mie dita hanno trovato un rifugio dentro la fodera del guanto nel quale ho fatto scivolare il rosario, poi le cose hanno seguito il suo corso. Tutte le mie cose sono finite nel sacco di canapa il quale ha anche inghiottito il mio onore, perché non avevo confessato la mia fede in Cristo. Nessuno mi ha chiesto niente - nessuno - tuttavia io non l’ho testimoniato. Il tradimento dentro di me è avvenuto comunque. Sapevo che non avrei sopportato che mi si chiedesse " Anche tu sei di Gesù di Nazareth".
E’ passato tanto tempo da allora. Era il 1961. Eppure ancora oggi mi si riempiono gli occhi di lacrime e supplico Pietro, gli domando: "Non è forse vero - tu lo sai come lo so io - che comunque noi lo amiamo il Cristo".
Ho fiducia che quando arriverò davanti al Volto del Signore e non avrò molto da dire - cosa potrei dire di me? - coloro che mi hanno preceduta, quelle che sono già morte e quelle che vivono, attraverso la loro vita e la loro esistenza diranno una parola per me, perché la mia vita è in loro.



La vita della comunità

La caratteristica della nostra vita è il nostro stare ritte davanti al Signore Dio nella liturgia, non ponendo niente prima di Cristo. La liturgia è una delle componenti più importanti, più belle e più ricche della nostra vita.
Un altro aspetto è la testimonianza del Signore, vivere della sua vita, testimoniarla e offrire la sua bontà agli uomini. Questi due aspetti fanno un tutto. Si tratta del doppio volto che genera una tensione continua - una volta Dio, un’altra volta gli uomini sono posti in primo piano. Questo esige una correzione fraterna continua affinché niente venga anteposto all’amore di Cristo. Non vi è nulla di più importante dell’amore, come dice San Paolo.
E’ la missione monastica: vivere Dio davanti agli uomini. Portarlo per loro, con loro, essere la loro bocca. Rendere semplicemente testimonianza agli uomini dell’esistenza di Dio. Non con le parole ma attraverso la nostra vita, con la nostra vita, poco importa come.