Fra maternità e lavoro: qual è il mio posto?



Com’è possibile conciliare lavoro e famiglia? Come si traducono le pari opportunità per una donna mamma e lavoratrice? Ne abbiamo discusso con Marina Corradi, 40 anni, da venti anni giornalista e inviato per il quotidiano "Avvenire". Come tutti gli inviati deve spesso e senza preavviso, lasciare improvvisamente Milano, dove vive e lavora. Nel frattempo ha avuto tre figli che oggi hanno tre, cinque e otto anni. Vi proponiamo alcuni stralci dell’intervista già in parte andata in onda su TeleTicino nell’ambito del ciclo delle emissioni televisive "Sigrid Undset: per una reale parità nella vita professionale" prodotte da Caritas Insieme.

D: Come ha potuto conciliare le attività lavorative e la vita di famiglia?
R:
La situazione di mamma lavoratrice è uno dei punti critici della vita delle donne. Capisco come spesso l’avere un figlio sia considerato un handicap, un rallentamento nel lavoro di una donna e capisco anche quelle donne che hanno paura di questo passo. Io mi sono convinta che la maternità è una cosa talmente insostituibile che per nessuna carriera ci si può rinunciare. Da questo assunto sono partita per il mio viaggio nella maternità pur essendo giornalista.

D: Ma è però una scelta che bene o male pone dei limiti alla carriera professionale.
R:
Certamente lo è, perché comunque, per quanto tu abbia passione per il lavoro, una parte consistente del cuore e della mente è sempre con i tuoi figli ed è molto difficile spiegare a un capo-redattore che oggi non posso andare in un determinato luogo (in cui bisogna andare subito), perché mio figlio ha la febbre ... Però, avere un figlio è anche un arricchimento umano che ti dà qualcosa di più anche nel lavoro che svolgi. Certo, bisogna accettare questo "rallentamento" che è indubbio: non puoi pensare di prescindere, di mettere da parte i figli e fare come se niente fosse, andare diritto per la tua strada, come una persona ambiziosa.

D: Questo "rallentamento" significa che una donna non potrà mai competere dal punto di vista professionale con gli uomini?
R:
Una donna che ha delle capacità può arrivare agli stessi livelli professionali di un uomo. La sfida che vivo io personalmente non è di dimostrare che posso essere capace quanto un uomo, perché su questo problema ormai mi sono tranquillizzata. Il mio problema è di non rinunciare a una parte essenziale della mia vita di donna, quella di essere madre. La difficoltà quindi che vedo nell’accedere a un certo livello professionale è quella di non perdere la dimensione famigliare e materna.

Per fortuna l’ambiente in cui lavoro è attento a certi valori. In certe aziende però non ci si rende conto che una donna lavoratrice e madre arriva al lavoro con già due o tre ore di impegni alle spalle, e quando torna a casa ha ancora due o tre ore di impegni, anche se a casa ha a disposizione una donna di servizio, anche se ha degli aiuti. Perché suo figlio ha bisogno di lei e non della baby-sitter.

Il prezzo pagato alla parità, non è quindi un minor successo o una minore possibilità di carriera, ma è un costo altissimo in termini di fatica personale. Abbiamo ottenuto di lavorare come gli uomini, lavorando però due volte come donne.

D: Lei mette l’accento sulla diversità, ma il modello manageriale odierno propone un modello maschile anche alle donne in carriera ...
R:
Non credo che la via femminile nel lavoro sia quella di identificarsi con il mondo maschile. Non penso che la via del successo sia quella di essere "come gli uomini"; degli uomini con i capelli lunghi, magari e con il tailleur. Questo a me sembra una tristezza, perché nelle ugualianze ci sono delle diversità che sono estremamente preziose. Questo andare a copertine/copiare uno stile altrui, aggressivo, scarsamente attento all’umano, poco accogliente (commento improvviso maschile: aiuto, mi sento discriminato ... n.d.r ) è una perdita.

Il modello manageriale vincente, che viene imposto forse anche da una cultura filoamericana è questo: l’uomo vince perché decide, perché è sicuro, perché non ha remore, perché non ha altri impegni, perché lavora 18 ore al giorno. Questo è il modello del manager vincente che, secondo me, molte donne hanno assunto con delle perdite... con dei ritorni a volte pesanti emotivamente quando si accorgono di avere 40 o 45 anni; hanno una scrivania potente, uno stipendio eccellente, ma non una famiglia, un figlio, il che a molti può andar bene, ma non a tutte.

D: Le ragazze nelle università sono in costante aumento, ma poi però per svariati motivi non le ritroviamo nel mondo del lavoro. Come mai?
R:
Io penso che questa impostazione dello studio universitario finalizzato a un lavoro e a una carriera sia naturale. Però è anche un po’ riduttiva, perché si può le conoscenze acquisite durante gli anni di studio possono essere utilizzate per il lavoro oppure trasformate in un tesoro da spendere là dove sei. Io penso a mia madre che era laureata in biologia e ha rinunciato alla carriera per stare con i suoi figli e probabilmente ne ha sofferto. Ha però saputo offrire una ricchezza e un’apertura culturale ai figli che le veniva dal fatto di aver una cultura. Questo ha sicuramente influito sulla sua capacità di stare con i figli. Quindi lo studiare non necessariamente è finalizzato a diventare dei supermanager di una multinazionale, perché se poi alla fine una donna decide, in parte o totalmente di stare con i figli, la sua ricchezza culturale diviene un prezioso dono per le persone che le stanno accanto...e magari è molto più importante il lavoro che fai con tuo figlio che quello che tu hai fatto come ingegnere nucleare.

D: Molte donne dicono di aver risolto almeno alcuni aspetti pratici del problema maternità/lavoro ma per far questo hanno dovuto trovarsi il marito giusto, pagare una governante, avere a disposizione una nonna e una ragazza alla pari, ...
R:
Le difficoltà ci sono. Sono parecchie e sono concrete: per esempio come faccio a portare a scuola mio figlio, quando alle otto ho il treno per andare a Bologna per un’intervista? Sono problemi banali ma di fatica massiccia. Alcuni miei colleghi arrivano al lavoro alle 11, dopo aver bevuto il caffé e letto i giornali. Io arrivo che ho lavato e portato a scuola tre bambini, fatto la spesa, pagato la bolletta della luce... e arrivo al lavoro spesso dicendomi che andrei volentieri a fare un riposino. Le difficoltà oltre che concrete sono anche emotive e psicologiche, nel senso che il prezzo principale di questa situazione di lavoro e di maternità è di avere sempre la sensazione di essere al posto sbagliato e di non fare abbastanza. Ovunque tu sei pensi: "Ah no, non sto dando abbastanza ai miei figli", oppure: "non sto dando abbastanza al lavoro". Il senso di colpa è la colonna sonora della mia giornata. Cerco di reagire con un po’ di umorismo. Non sopporterei di sentirmi definire una mamma vincente. Diciamo che io sono una che perde con allegria.

D: Pensi che la fatica costante e i sensi di colpa restano i comuni denominatori per le donne che desiderano vivere il dono della maternità e cercare di essere attive professionalmente?
R:
Oggi purtroppo le sole prospettive sono quelle di mettersi nell’ottica di fare una grossa fatica. Di fare due lavori insieme, con rimpianti da una parte e rimorsi dall’altra, magari partendo per lavoro col cuore a pezzi, perché il bambino ha 38 di febbre e vorresti stare lì con lui. D’altra parte per un certo tipo di donna che ha studiato e che ha cominciato a lavorare da giovane (come ce ne sono tante ormai), stare a casa, al di là dei problemi economici, non è possibile. Come l’uomo la donna desidera continuare le sue prospettive professionali. Non vedo per quale motivo la donna deve obbligatoriamente privarsi di questa dimensione del lavoro esterno.

D’altra parte ed ecco quindi questa ambiguità, per me non c’è carriera al mondo che valga un figlio. L’allegria che ti dà un bambino, la soddisfazione ti averlo fra le braccia non è paragonabile a un premio giornalistico o a un articolo in prima pagina. Non c’è confronto. Sono anche contenta di svolgere le mie attività professionali e cerco di farle bene, ma siamo in due ordini diversi di esperienza, due ordini per me non paragonabili.