AIUTI UMANITARI, sembra promozione, MA ...

Di Luigi Brembilla




Ancora una volta il problema degli aiuti umanitari ci pone grossi interrogativi. L’esperienza vissuta dai nostri collaboratori su un progetto in Ruanda ci ha riproposto la complessità degli interventi all’estero, in situazioni di promozione alla persona.


Nel corso di un momento di formazione, il 20 luglio scorso, Luigi Brembilla, nostro collaboratore per le valutazioni di fattibilità di idee e di progetti di aiuto, che Caritas Ticino intende intraprendere, si è recato in Ruanda (nella diocesi di Gikongoro), insieme a Marco Fantoni, referente dei progetti all’estero, per verificare un progetto di sostegno allo studio per 450 ragazzi ruandesi, portandoci la sua esperienza, se pur breve, fatta in questo paese, le cui condizioni e prospettive sono peggiori di quelle descritte dai
mass-media.Non si tratta di un diario di viaggio, ma di una serie di osservazioni che meritano attenzione perché provengono da chi dell’attenzione al prossimo ha fatto un fondamento del suo impegno professionale ed umano.
Riportiamo alcuni passaggi di questa testimonianza, su alcune problematiche sulle difficoltà degli interventi umanitari in corso. Sono parole dure come macigni, che cadono nell’ovattata indifferenza a cui ci hanno abituato le quotidiane immagini di povertà.
Il quadro che il nostro collega traccia, può, forse, sembrare cinico, ma la realtà è l’unica maestra che ci permette di costruire interventi credibili.


Filosofia per la formazione di disoccupati

Noi siamo stati là per la verifica di un progetto di sostegno per 450 ragazzi che frequentano le scuole superiori. Questo fatto mi ha fatto riflettere parecchio perché le scuole primarie sono frequentate da circa il 50% della popolazione scolastica ruandese.
La scuola superiore, quindi, si pone già in una situazione a vantaggio di un’élite di persone. A creare ulteriori complicazioni, diversi ragazzi, arrivati ormai al termine delle superiori, ci hanno chiesto di poter essere aiutati agli studi universitari.
Riflettendo sul tipo di scuole presenti, scuole più di tipo umanistico che tecnico, mi sono chiesto come poteva conciliarsi questo tipo di studio, con il fatto che in seguito bisognava lavorare la terra con la zappa, non con mezzi meccanici, perché trattori o altri strumenti tecnici in Ruanda non ce ne sono (abbiamo visto un trattore in una settimana, peraltro in città, nemmeno in campagna).
Quindi lo strumento tecnologicamente più avanzato in Ruanda, per potersi procurare da mangiare, cioè da vivere, è la zappa; una zappa molto rudimentale.
Per produrre energia, per far cuocere i mattoni, per cucinare, si usa la legna tagliando i boschi (ormai non ce ne sono quasi più).
Per prendere l’acqua, per la casa e per le coltivazioni attorno alle abitazioni, si fanno chilometri a piedi con una brocca in testa che contiene 10, 20, 30 litri a seconda di chi riesce a portarla. Una o più persone vengono incaricate per l’approvvigionamento giornaliero dell’acqua. Il trasporto dei materiali è fatto dalle persone: uomini, donne e ragazzi in prevalenza; non ci sono animali da soma o da cortile come cavalli, muli, asini, cani o gatti. Impossibile poterli nutrire, sarebbero in concorrenza alimentare con l’uomo.
Le case sono costruite prevalentemente con strutture di legno e arbusti ricoperti di fango. Dentro le case c’è poco o niente. Anzi, più niente che poco. Cucinare, significa mettersi fuori casa e con un bidone tagliato a metà contenente un po’ di acqua, due patate, o tuberi analoghi, preparare la cena come unico pasto giornaliero.
La popolazione però cresce e raddoppia ogni 20 anni. Questo significa che fra 20 anni il Ruanda sarà abitato da 14 milioni di persone. Nel 1930 contava 1,5 milioni di abitanti, è arrivato ora a 7 milioni. Sicuramente, oggi, è impossibile avere cifre esatte in quanto non si sa quanti siano realmente i morti del genocidio e quanti siano i profughi ruandesi all’estero e quanti entrati dall'Uganda con le armi.
Le nazioni confinanti spingono sulle frontiere i profughi ammassati in campi di "accoglienza", mentre in Ruanda non li vogliono, perché non c’è più terra per accoglierli, le loro case sono state distrutte o occupate da coloro che sono rimasti.
Vi sono quindi milioni di persone senza prospettive, senza un futuro da immaginare.

L’economia presente, basata essenzialmente sull’agricoltura di sussistenza e di piccolo allevamento, non può soddisfare ulteriori carichi di bisogni alimentari, tantomeno di servizi


Ecco, dentro questo quadro, noi finanziamo dei progetti per ragazzi che stanno studiando per diventare infermieri, maestri o professori. In questa situazione, lo stipendio ai futuri lavoratori del settore dei servizi potrà essere assicurato solo se le nazioni ricche porteranno ancora soldi per costruire e gestire ospedali, scuole ecc. (I ruandesi soldi per i servizi non ne hanno). Diversamente noi avremo formato diplomati con la sola prospettiva della disoccupazione, cioè senza prospettive.
Il Ruanda è piccolissimo, in rapporto ai paesi africani, con una densità di popolazione di 300 abitanti per chilometro quadrato, (quasi come la Lombardia, il Ticino ne conta circa 100).
Inoltre il territorio è al 90% di tipo collinare, non terrazzato, con dilavamento connesso al disboscamento, il terreno è sottoposto a continuo impoverimento.
Io non credo che in economia, nella produzione, nella cultura si possano fare miracoli o salti d’epoca; poiché, da una situazione sociale tribale, anni ’20, le cose non sono molto cambiate, mentre la popolazione è triplicata e i nostri cosiddetti aiuti umanitari dovranno per forza cambiare, pena il riproporsi di situazioni conosciute .


Aiuti umanitari per creare una dipendenza?

Sicuramente un intervento umanitario di sostegno alla salute, aumenta la possibilità di vita delle persone. Noi, aiutando i bambini perché non muoiano o muoiano molto meno di diarrea, o di malnutrizione, riduciamo sì la mortalità infantile, ma in questo contesto peggiorando la loro possibilità di "speranza di vita". La durata media della vita, in Ruanda, è di 22 anni, mentre la speranza di vita è di 50 anni. Visitando un centro sanitario, di fronte ad una "sala parto" sono rimasto sconcertato per la scarsa presenza di strumenti di pronto intervento e soprattutto per il livello igienico della stanza, (un nostro mattatoio è decisamente molto più asettico e decoroso).

Ripensare gli aiuti, significa anche valutare le conseguenze degli stessi

Il Ruanda oggi sopravvive anche grazie agli aiuti alimentari dei cosiddetti paesi ricchi, che oltre a sfamare le persone, stanno creando anche una cultura del bisogno, della dipendenza.

Se noi occidentali abbiamo il problema della dipendenza dai prodotti "inutili", là si sta creando la dipendenza dai prodotti provenienti dagli aiuti umanitari

Questo fatto porta con sé la scarsa attivazione delle persone nella ricerca di soluzioni interne ai propri bisogni, alle proprie possibilità e alle proprie risorse.
Questo è quanto ho vissuto nel mio breve periodo di permanenza e che mi ha portato a questa riflessione: l’anno prossimo noi possiamo ancora finanziare questi 450 ragazzi che aiuteremo ad arrivare al diploma ma poi dovremo sostenerli a vita?
Un ragazzo esprimeva la sua grande soddisfazione, perché quest’anno aveva incontrato certi autori di psicologia. Era entusiasta e io, da cattivo che sono, gli ho detto: "sicuramente una bella esperienza quest’incontro, ti aiuterà a zappare meglio i fagiolini vicino a casa, che sono la tua risorsa di oggi, per te e la tua famiglia e probabilmente la tua speranza per domani".
Altro problema sono le attrezzature scolastiche, in particolare abbiamo visitato una scuola di agraria, dove non c’è, non dico un laboratorio, ma assolutamente niente. Lì la formazione viene fatta esclusivamente a livello teorico e l’esperienza pratica attraverso dei tirocini presso contadini della zona. Se dal un punto di vista organizzativo la soluzione presa è senz’altro valida, dal punto di vista formativo no. I contadini continuano a riprodurre tecniche di coltivazione ferme all’anno 1000. La scuola come incentivo all’innovazione non esiste, la tecnologia costa tantissimo; i nostri prodotti e le nostre tecnologie sono per loro proibitive.
Là non si fanno scuole di tipo tecnico, perché non si possono permettere attrezzature e laboratori. Questa considerazione è stata confermata anche dagli interlocutori della Caritas locale.
Per fare una scuola con indirizzo umanistico servono dei locali, i docenti che insegnano il latino, l’inglese, il francese, la pedagogia, ecc. e te la sei cavata.

Per programmare scuole tecniche servono laboratori, attrezzature che costano troppo per una economia di sussistenza


Quasi, quasi, la guerra ...

Se gli aiuti non saranno ripensati, se l’aiuto alimentare continuerà, quello sanitario salverà ancora bambini, diversamente destinati a morire, se la crescita demografica continuerà con questo ritmo, se i confini del Ruanda e l’accoglienza di altri paesi si fermeranno dove sono, se le tecnologie non verranno messe a disposizione a costi accessibili o in sostituzione degli attuali aiuti ecc., non vedo quale altra soluzione se non il ripetersi di genocidi come mezzo di riequilibrio fra possibilità di sussistenza e crescita demografica, fra cultura colonialista e cultura della crescita, fra cultura tribale e cultura della liberazione .
Ripensando gli attuali aiuti internazionali, per la maggior parte di tipo alimentare, (mais e soia inviati dall’America , legumi e riso dall’Europa e dal Giappone), aiuti che per i paesi ricchi sono di fatto a costo zero; sono per lo più eccedenze di produzione che messe sul mercato potrebbero squilibrare i prezzi internazionali e quindi recare danni alle economie di quei paesi. Messi invece come aiuti umanitari fanno fare bella figura ai ricchi, salvando i relativi mercati ed economie. Diversi sono gli aiuti di prodotti tecnologici; questi solitamente creano il debito ai paesi in via di sviluppo e per il Ruanda l’impossibilità a qualsiasi ammodernamento produttivo.


Ci sono prigioni e prigioni

In Ruanda attualmente ci sono ancora più di 100’000 persone in attesa di giudizio per presunta partecipazione al genocidio. I fascicoli istruttori sono predisposti dalla polizia locale (comunale) prima di passare in giudizio. I tribunali sono paralizzati, sia quelli nazionali che quelli internazionali. Le prigioni sono in situazioni indescrivibili, con una densità di presenze talmente alta da non permettere ai detenuti di potersi sdraiare contemporaneamente, per mancanza di spazio. Le prigioni comunali non prevedono la somministrazione dei pasti; i detenuti che non hanno parenti che li possano alimentare giornalmente muoiono di fame. Peraltro in queste prigioni la fuga sarebbe una cosa facile viste le scarse misure di controllo. Fuori però, il fuggiasco avrebbe vita breve, perché sarebbe ucciso in breve tempo, magari a colpi di macete dalle stesse persone che lo hanno denunciato. Quindi, la prigione risulta essere un luogo di protezione in attesa di giudizio; purtroppo senza limiti di tempo. Oggi, è ancora possibile perdere la propria casa per una denuncia anche interessata. Basta la complicità di un miliziano, che per soldi, rancori o vendetta, convalidi una denuncia.
La milizia è composta prevalentemente da ragazzi si e no diciottenni con grandi poteri di controllo, valutazione e giudizio su fatti e persone.

Mentre si lavora per la costruzione di organismi più rappresentativi e "democratici", per la soluzione del problema della sicurezza della persona, lo sforzo maggiore resta quello della costruzione di una economia e cultura che superi il livello della sussistenza

Necessita la costruzione di opportunità di produzione, di scambi di beni primari che modifichino i rapporti fra le persone e che dia loro una prospettiva di vita.
Attualmente, la cultura di sussistenza è la prigione di questa gente, incatenata all’assenza di prospettiva e di futuro.

L’incomprensione di queste realtà non riguarda solo i mass-media,
riguarda anche noi. La domanda rimane quella iniziale: noi stiamo facendo forse solo dell’assistenzialismo?

La politica del potere e della sopravvivenza.

Lo scontro etnico, così come propagandato e sobillato, nascondeva e tuttora nasconde, il controllo del potere e dei privilegi

La tribù, famiglia o dittatura, che controllava il paese, disponeva di poteri totalitari su governo, esercito, milizia e gerarchia amministrativa e giudiziaria.
Il maggior introito del paese è dato dal controllo dell’aeroporto di Kigali, porto franco per il traffico di armi, droga, diamanti e di commerci illeciti. Il suo controllo garantisce potere nazionale e internazionale.
La crisi commerciale internazionale del caffè e del tè ha messo in ginocchio l’unica risorsa d’esportazione del paese.
L’industria più fiorente è quella che produce mattoni di argilla, cotti con il fuoco di legna, utilizzati però, solo nelle costruzioni finanziate dalle associazioni umanitarie (ospedali, scuole, chiese, ecc.).
Il lavoro dipendente è dato, per la maggior parte, dallo Stato e dalle associazioni umanitarie per lo svolgimento di propri progetti.
Il piano d’intervento del governo per il risanamento ambientale delle abitazioni è quello della costruzione di "latrine" presso le abitazioni stesse.
Ho visto persone senza un’età precisa, mi era impossibile definirne gli anni, che andavano al mercato con una gallina in mano e tornare la sera con la stessa gallina, con la consapevolezza di non avere altro che questo animale da poter scambiare con altri prodotti alimentari per il sostentamento della famiglia. Al mercato si va per scambiare qualcosa, non per acquistare con denaro, perché la gente in Ruanda di soldi non ne ha.
Anche le capre e le mucche, poche per la verità, sono un bene prezioso da considerare per la sopravvivenza, tanto da essere custodite accanto alla propria stanza. Una mucca, in situazione normale, produce un litro di latte al giorno. Questo ci dimostra quanto povera sia l’economia domestica di queste persone.
Ora, un governo di pacificazione nazionale, tutzi e hutu, cerca la normalizzazione e la riconciliazione, con la supervisione di organismi internazionali dell’Onu, peraltro molto deboli o quasi inesistenti.


Un quadro come questo è senza speranza?

Risposte io non ne ho, ho questa grande sensazione d’impotenza da un lato, e buona volontà dall’altra ma decisamente piena di grandi interrogativi, anche riguardo alla possibilità che queste persone hanno di poter sperare nella vita.
Considerati i vari problemi esistenti: la salute, la scuola di base, la scuola secondaria, l’emancipazione economica, culturale e politica, si possono esaminare diversi progetti che permettano di superare il livello di sopravvivenza e che possa permettere relazioni umane basate sulla prospettiva di un cambiamento.
Insieme potremmo confrontarci per una verifica che vada aldilà dei buoni sentimenti ma nello stesso tempo possa "comprendere" i bisogni di queste persone e della situazione generale.
L'obbiettivo più importante è riuscire ad incidere sull’economia domestica, permettendo un surplus, quello che noi chiamiamo guadagno.
Si tratta di poter avere un chilo di fagioli per la sopravvivenza più un etto che possa essere accantonato per poterlo scambiare, dando inizio così ad una piccola economia.
Sul piano culturale-economico si dovranno: "permettere prestiti sulla fiducia, prestiti alla persona, all’uomo, non prestiti con ipoteche, ecc."
"Io oggi ti do una capra, tu domani mi darai un capretto, che io poi darò ad un altro" e così via.
"Io oggi ti do 50 chili di semi di patate e tu me ne darai 50 con il successivo raccolto".
"Io ti offro formazione, strumenti, tecnologia perché tu possa essere autonomo nelle tue scelte future e non dipendente e debitore a vita".
Questi progetti sono ancora troppo pochi, rispetto all’intervento di assistenza alimentare. Per noi è facile portare gli avanzi del riso, non sappiamo cosa farne; lo stesso per la soia, ecc. Ci costa ancora troppo rinunciare ai guadagni sui trattori, sulle tecnologie, sui generatori di corrente, sul petrolio, ecc.
Attualmente, è difficile la costruzione di relazioni umane, anche perché l’invidia di beni posseduti da altri, in situazioni limite, fa sì che la vita stessa venga minacciata.
Tutsi o Hutu diventano cosi entità economiche di sfruttamento piuttosto che elementi di valore etnico.

L’incomprensione di queste realtà non riguarda solo i mass-media, riguarda anche noi. La domanda rimane quella iniziale: noi stiamo facendo forse solo dell’assistenzialismo?