Non profit uguale profit
Economia civile e principio di reciprocità
A colloquio con Stefano Zamagni

Di Mimi Lepori

Il dibattito iniziato sull'ultimo numero della rivista sta interessando. In questi mesi questa parola, che a volte sembra magica perché se ne parla soprattutto quando si pittura con tinte grige la situazione economica sociale nella quale si vive, sta assumendo una nuova importanza. Un fatto sembra acquisito. Il settore non profit sta vivendo un momento di gloria. A noi che per esperienza professionale, per scelta ne siamo dentro, coinvolti fino in fondo, il compito di offrire a tutti gli strumenti necessari per meglio capire. L'ultima volta abbiamo tentato di spiegare cosa è il settore non profit, togliendo l'equivoco che lo stesso possa essere identificato con l'esercito di volontari che opera nella società civile. Nel settore non profit ci stanno anche e soprattutto quelle imprese dotate di capitali e di patrimoni che contribuiscono a creare beni relazionali e a rispondere efficacemente ai bisogni presenti nella società, primo fra tutti, di questi tempi, il posto di lavoro.
Ma allora il settore non profit non può avere un ruolo residuale, non può essere considerato un settore di utilità pubblica dove chi solo "è buono" da del tempo gratutitamente. Da una parte il non profit e dall'altra quelli che contano che fanno il profit. Questo modo di guardare alla società -le 101 misure ne sono un esempio lampante- non tiene conto della ricchezza e dell'importanza che tutto il settore non profit sta assumendo nei confronti dello Stato e del mercato.
La chiaccherata avuta con il prof. Stefano Zamagni, presente a Lugano grazie al convegno organizzato da Pro Infirmis per i suoi 60 anni di presenza, ci ha permesso di chiarire molti aspetti del settore non profit.

D: Da noi si chiama privato sociale, terzo settore, settore non profit. Lei Prof. Zamagni come lo chiama e perché?

Stefano Zamagni
: Non è per far delle questioni nominalistiche, ma da qualche tempo vado sostenendo che l'espressione terzo settore tende ad essere equivoca per la seguente ragione: perché lascia intendere che si tratta di un settore residuale. Terzo vuol dire dopo il primo settore che è il mercato privato, il secondo è lo Stato. Nel mio Paese, l'Italia, ma per quel mi risulta anche in altri, è accaduto storicamente che il cosiddetto terzo settore abbia, fino ad oggi o fino a qualche anno fa, svolto una funzione residuale di supplenza. Vale a dire: dove non arriva il mercato privato, dove non arriva lo Stato, si concedeva spazio al terzo settore, proprio per far fronte a quello che gli economisti chiamano fallimenti e del mercato e dello stato. Io ritengo che siamo arrivati ad un punto di svolta decisivo, cioè quello di reclamare per queste iniziative per queste organizzazioni che io preferisco chiamare di economia civile, uno statuto che conferisca loro, da un lato identità e dall'altro indipendenza ed autonomia. In altre parole la mia battaglia è di restituire a questo variegato mondo nel "non profit" una identità per renderlo un soggetto politicamente rilevante, dove per politico intendo quella che propriamente è la soggettività politica, e non la sfera dei partiti. Queste organizzazioni devono concorrere alla definizione delle linee d'intervento, non possono intervenire solo dopo che altri hanno deciso quello che occorre fare nell'area dell'assistenza, nell'area del "Welfare state". Questo è una concezione riduttiva, che al di là dei punti di vista di questo o quell'altro politico o studioso non coglie più nel segno. I tempi oggi esigono che la definizione delle linee d'intervento sia il risultato del concorso anche di coloro ai quali quegli interventi sono diretti. Non possiamo più accettare una visione di cittadinanza passiva. Questo non solo va contro la dignità, ma va contro l'efficienza. Contro l'efficienza perché si può dimostrare che questo modo d'impostare le cose genera sprechi e l'Italia è un esempio classico. Il nostro modello di "Welfare" è entrato in crisi proprio su questo piano, perché non si è prestata attenzione a questa legge fondamentale, una legge che personalmente esprimo con il concetto di principio di responsabilità. Noi non possiamo legiferare o determinare linee d'intervento, prescindendo dall'informazione, dalla conoscenza che possono avere solo coloro i quali sono i destinatari di questo intervento. Ecco allora perché non mi piace l'espressione terzo settore, perché dà l'idea di qualcosa che viene dopo.

D: Ma questo voler ridare competenze al settore non profit, questo voler rivalutare la società civile non suona un po' stonato. Prima tutto allo Stato oggi perchè lo Stato è deficitario, non ha più soldi ecco che il settore non profit diventa importante e gli si attribuiscono nuovi compiti. Il liberalismo, il meno Stato che soffia come un vento nuovo nei nostri Paesi non è privo di rischi.

R: Il rischio c'è, però ritengo che il rischio opposto sia di gran lunga maggiore. Voglio dire che la ragione profonda della crisi del "Welfare state", sta nel modello di "Welfare", cioè nel modello statalistico. Una parentesi sull'espressione "Welfare" che è nata in Inghilterra. Il primo ad implementarla fu Lord Beveridge nell'immediato dopoguerra. Ebbene Lord Beveridge combatté strenuamente perché non voleva che si chiamasse "Welfare state". Perché alla lettera vuol dire stato del benessere e Beveridge con Keynes, il grande teorico dell'economia, dicevano: "Badate che il benessere non dipende dallo Stato, non può essere lo Stato a dare il benessere", quindi Stato del benessere è una contraddizione in termini. Beveridge proposte invece "Social service state", cioè uno stato di servizio sociale, che è una cosa ben diversa. Però per ragioni politiche interne all'Inghilterra prevalse la dicitura "Welfare state" che da allora è rimasta. Questo è importante che si sappia perché sin dall'inizio i fondatori del Welfare avevano capito che lo Stato non deve interferire. Lo Stato deve indicare delle linee guida, deve esercitare controlli e deve dare risorse, ma non deve gestire. Ecco allora, per tornare alla sua domanda, perché non vedo il rischio. La gestione del variegato mondo dei servizi sociali, dalla sanità alla scuola, ecc. non può essere gestito dallo Stato perché lo Stato non ha gli strumenti di conoscenza, né è in grado di fornire questi beni come beni relazionali. Ora cos'è un bene relazionale. Un bene relazionale è un bene la cui utilità dipende dal modo in cui viene offerto al consumatore. Lo Stato come offre e come ha offerto questi beni, questi servizi sociali? Con la modalità tipica dello Stato e cioè, la modalità burocratica. Ora il fruitore di questi servizi, rifiuta questo modo. Perché ad un ammalato, ad un portatore di handicap, non basta che lo si trasporti sulla sedia a rotelle, bisogna che mentre lo si trasporta, gli si parli, gli si dimostri cioè che stare con lui è un valore di per sé e non è un mero assolvimento di un obbligo burocratico. E' un esempio questo, ma potremmo moltiplicarli facilmente.
Bisogna che la società civile si organizzi. La parola chiave è organizzarsi. Organizzarsi vuol dire che deve essere posta in grado di volare con le sue ali, e quindi di avere le risorse adeguate. Questo è il punto vero che occorre in questo momento affrontare. Ecco perché preferisco parlare di un'economia civile. Quindi il modello che ho di fronte è una società che ruota attorno a 3 sfere di economia. L'economia pubblica che continuerà ad esercitare un ruolo perché in certi settori, lo stato dovrà mantenere la sua presenza. L'economia privata, che è formata da tutte le imprese che hanno scopi di profitto ed infine ci deve essere un'economia civile cioè un' economia formata da tutte quelle organizzazioni ed imprese che vanno dalle cooperative alle fondazioni alle associazioni alle varie forme di volontariato e così via. Tutte queste organizzazioni che io raggruppo sotto l'etichetta di economia civile, che cosa hanno in comune? Hanno in comune l'idea di diffondere e di praticare il principio di reciprocità. Ora questo è il punto importante da afferrare. Se noi riduciamo il non profit semplicemente ad esecutore di politiche decise da altri presto o tardi scomparirà. Soprattutto i giovani non ne vogliono più sapere. Il giovane oggi può impegnarsi in iniziative soltanto se ha chiaro l'orizzonte del senso. Ebbene questo orizzonte del senso uguale al bisogno di diffondere nelle nostre società postindustriale, la cultura della reciprocità. Il mercato privato mi diffonde la cultura del contratto, l'economia civile o mercato civile mi dà la cultura della reciprocità. Le nostre società devono bilanciare in maniera equilibrata e saggia la cultura della reciprocità e la cultura del contratto. Altrimenti i rischi di una involuzione o verso la sponda del liberismo o verso la sponda del neo-statalismo, legato a certe tradizioni anche del movimento socialista-marxista saranno inevitabili. Noi dobbiamo superare entrambi questi rischi. La Scilla del liberismo e il Cariddi del neo statalismo.

D: Abbiamo intitolato la rivista di Caritas Non profit ugale profit. Lei cosa ne pensa? E possibile parlare di profit quando si pensa a servizi di utilità pubblica o a imprese che si inseriscono nell'economia?

R: Le organizzazioni del non profit in quest'ottica diventano organizzazioni che producono e non solo semplicemente che redistribuiscono. Sino ad ora le organizzazioni non profit sono state viste come organizzazioni ridistribuite, che prendevano da una parte e davano dall'altra. Ora questa funzione continuerà ad esistere perché è importante, però non basta. Dobbiamo dirlo a chi opera dentro il non profit, dentro l'economia civile, e capite perché preferisco definirla economia civile, perché la parola economia dà l'idea della produzione, civile da l'idea del cittadino cioè di chi vive nella cittadinanza. Quindi produce. Questo allora è il primo punto. E voi direte ma perché è importante? E' importante perché è ancora diffusa nella nostra gente il convincimento che chi opera in queste organizzazioni fa solo "la buona azione quotidiana" il boy-scout della situazione. E' una cosa aberrante, non è vero niente. Chi opera in questo settore produce, eccome. Solo che produce beni o servizi che hanno valore di scambio e hanno un valore d'uso. Io rifiuto la distinzione, valore di scambio, valore d'uso, perché è la distinzione che andava bene ieri ed oggi non va più bene. Perché guai a dire che chi produce, ad esempio l'assistenza al portatore di handicap produce un valore d'uso. No, no, produce un valore di scambio. Se noi rimaniamo vittime della distinzione, valore d'uso valore di scambio, non ci sarà niente da fare ed il non profit rimarrà sempre un valore residuale. Quindi io mi rifiuto di accettare questo. E quando discuto nei seminari con i miei colleghi economisti, do battaglia su questo. Perché invece il tentativo è quello di continuare quella distinzione marxiana, classico marxiana del valore di scambio e del valore d'uso. Dico basta! Quella distinzione era vera ieri, all'epoca del fordismo oggi non è più vera. Perché non è più vera. Perché noi come cittadini consumatori siamo in grado di esprimere una domanda solvibile, pagante. Non è vero che non c'è la domanda solvibile. Il problema non è che manchi la domanda solvibile di queste categorie di beni, che tecnicamente si chiamano beni relazionali. Il problema è che non ci sono i soggetti d'offerta. Cioè il problema è che non ci sono i soggetti od organizzazioni che li producono. Perché ognuno di noi sarebbe disposto a pagare per determinati servizi e per determinati beni ad alto contenuto di relazionalità, i cosiddetti beni relazionali. Il fatto è che nessuno li produce e poiché nessuno li produce, qualcuno ci verrà a dire che non c'è la domanda pagante. In quelle regioni d'Italia dove sono nati i soggetti di offerta la domanda pagante subito, nel giro di 48 ore, è emersa, come ad esempio l'Emilia-Romagna, la regione a cui appartengo, il Veneto o la Toscana. Quindi vedete come a volte certe concettualizzazioni ci impediscono di vedere la realtà. Quindi non è vero che non c'è la domanda pagante. L'Italia è il sesto paese come reddito pro-capite. Come si fa avere il coraggio di dire che non c'è la domanda pagante. Il problema è, per essere banali, che se io devo mettere mia madre, molto anziana, in una casa a misura di persona umana, se vado in una clinica privata mi chiedono Lit. 6'000'000 al mese e allora è chiaro che non sarò pagante, perché non ho 6 milioni, però se nascessero dei soggetti di offerta come stanno nascendo in grado di accogliere questi anziani e mi chiedessero 1 milione e mezzo, io 1 milione e mezzo posso pagarli. Quindi vedete che c'è la domanda solvibile, non è che non ci sia. Non c'è secondo le condizioni del mercato privato, ma ci sarebbe secondo le condizioni del mercato civile.

(Testo trascritto e non rivisto dall'autore)