MACCHÈ UOMINI di buona volontà

Di don Giorgio Paximadi

Don Giorgio Paximadi, esegeta, professore alla Facoltà di Teologia di Lugano, con Dante Balbo commenta il Vangelo domenicale nella rubrica televisiva "Il Vangelo in casa" di Caritas Insieme in onda su TeleTicino

"Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà". È l’annuncio degli angeli ai pastori durante la notte di Natale, quello che ci indica il senso ultimo di questa festa: essere uomini di buona volontà. Finalmente una parola chiara della Bibbia. Non più questi testi dell’Antico Testamento che ci parlano di un Dio geloso, che entra nella storia ed ama di un amore esclusivo, che sceglie un popolo e lo dichiara appartenente a lui, vietandogli di venerare altre divinità. Pericoloso esclusivismo, foriero di tutti i settarismi ed i fondamentalismi futuri, che impedisce l’Apertura e l’Ascolto dell’Altro, l’Inculturazione ed il Dialogo, per affermare un cieco dogmatismo integrista. Che strana idea, che Dio abbia bisogno di salvare gli uomini attraverso uno strumento così evidentemente inadeguato come una scelta, un’elezione che divide l’umanità in uomini di serie A, che conoscono la Verità, ed uomini di serie B, massa condannata all’ignoranza ed alla superstizione.
Ma ecco che la rivelazione del Nuovo Testamento ci viene ad annunciare ciò che, in fondo, avevamo sempre saputo, ossia che la pace è il dono di Dio per gli uomini di buona volontà. Non più una salvezza che arriva verticisticamente dall’alto, come un dono graziosamente concesso da un Dio con le fattezze di un sovrano assoluto, ma una salvezza che l’uomo stesso si dà, attraverso la sua propria bontà, e che si concretizzerà in tante azioni in favore degli "ultimi", dei "poveri", con un’ovvia "scelta preferenziale" per questi. La pace, frutto di questa salvezza, sarà allora veramente umana, perché tutti potranno ottenerla, indipendentemente dalle loro convinzioni, purché si comportino in modo "buono" e, chiaramente, "onesto". Questa pace, potremo forse continuare ancora ad attribuirla a Dio, cui resterà il compito di approvare, come un buon, vecchio Padre (pardon! Come una buona, vecchia Madre, certamente "onnisofferente" o qualcosa di simile, che fa così trendy) ciò che i figli, forse un po’ ribelli, ma coraggiosamente, "profeticamente" ribelli, e comunque dotati di tanta buona volontà, vanno facendo.
Forse i nostri lettori si stanno già sfregando gli occhi e guardano stupefatti la copertine/copertina di questa rivista, pensando di essersi sbagliati: credevano di avere tra le mani Caritas Insieme, e invece...
Niente paura, amici! Siamo sempre noi e non siamo impazziti, abbiamo solo voluto divertirci un po’ ed immaginare un articolo che annunci il mistero del Natale così come il mondo vorrebbe sentirselo annunciare. Certamente non rischiamo di leggere una simile melassa sui nostri mezzi di informazione (mah?), tuttavia la mentalità cui essa fa riferimento non è poi così lontana da ciascuno di noi. Spesso infatti cerchiamo di metterci a posto la coscienza attraverso slogan simili a quelli che abbiamo, per dileggio, elencato sopra, o riduciamo formule che hanno una loro dignità e che vengono utilizzate anche dal Magistero della Chiesa, come quella della "scelta preferenziale per i poveri", ad un significato che nulla ha a che spartire con l’etica e la dottrina cristiana.
Chi infatti compie l’unica, la vera "scelta preferenziale per i poveri"? Per rispondere a questa domanda occorre puntualizzare un aspetto fondamentale. Chi è il povero? Cosa vuol dire "essere povero"? Certamente il significato primo di questo termine denota chi è sprovvisto di sufficienti risorse per garantire la propria sopravvivenza. Questo tuttavia è soltanto il più superficiale livello della povertà umana. Esiste un livello più profondo di povertà, che non è caratteristico di una categoria di persone o di una classe sociale, ma che segna il sottofondo dell’esperienza di ogni uomo, e questa povertà è la sua radicale dipendenza: è il fatto che egli non si può dare da solo il senso del proprio vivere. Ogni uomo nasce con un bisogno nel cuore, con un desiderio di compimento che può assumere toni drammatici o può percorrere la sua esistenza in modo impercettibile, ma che lo caratterizza in quanto uomo. La persona umana è, dunque, radicalmente un mendicante. La sofferenza, la povertà materiale, il bisogno, soprattutto il peccato, rendono più evidente, più drammatica, questa povertà dell’uomo.
Dio, in Gesù Cristo, ha compiuto la scelta preferenziale per questo povero che è l’essere umano. Non è tanto a causa di una particolare miseria materiale che Gesù si è fatto povero tra i poveri. La povertà della Sacra Famiglia appartiene infatti più all’agiografia devozionista che al racconto evangelico, ed anche il particolare della stalla e della mangiatoia è piuttosto un’attenzione di Giuseppe nei confronti della moglie - l’affollata sala comune della locanda "non era posto per loro", cioè inadatto ad una donna in quelle condizioni - che espressione di un rifiuto di accoglienza da parte della cittadinanza di Betlemme. Anche il fatto che Gesù non avesse un posto dove posare il capo è piuttosto una descrizione del suo ministero itinerante che un tentativo di classificarlo nella categoria dei "senza tetto". La scelta preferenziale per i poveri operata da Gesù consiste nel fatto che egli, "da ricco che era, si è fatto povero per noi", ossia ha condiviso il bisogno della nostra umanità, per renderci ricchi della partecipazione alla sua vita divina, cioè per dare una risposta definitiva al desiderio del cuore di ogni uomo.
È chiaro quindi che Gesù abbia guardato con maggiore simpatia quegli uomini che la povertà, la malattia, il dolore rendevano più aperti al suo annuncio di gioia e di pace, piuttosto che quelli già sazî della propria ricchezza e del proprio potere. Tuttavia Levi, Zaccheo, Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, ed addirittura qualche signora dell’alta società, come Giovanna moglie di Cusa, amministratore di Erode, la quale assisteva Gesù con i suoi beni, dunque ne aveva e continuava ad averne, hanno riconosciuto in Gesù una risposta a quella povertà che avvertivano in sé, e che nulla aveva a che spartire con la loro condizione economica.
E noi? Noi la facciamo, la scelta preferenziale per i poveri? Certo! Altrimenti che Caritas saremmo? Ma cerchiamo di farla per imparare anche noi qualcosa. Andiamo cioè incontro al povero prima di tutto per scopertine/coprire che siamo poveri anche noi: assetati di quella ricchezza che si trova soltanto nell’umanità di Cristo. Andiamo incontro al povero per educarci a questa povertà, che, eventualmente, si tradurrà anche in un’attenzione alla povertà materiale, nostra ed altrui; in un desiderio di condividere e di alleviare quella povertà per cui possiamo fare qualcosa, per chiedere che un Altro condivida la povertà, nostra e dei "poveri", per la quale noi non possiamo fare nulla. Lo facciamo per scopertine/coprire nella miseria, nel dolore, nell’abbandono la verità grande della nostra vita, ossia che c’è un solo ricco, Gesù Cristo, e che c’è una sola scelta preferenziale per i poveri, la sua incarnazione.
Ma allora, come la mettiamo con la "buona volontà"? Ebbene, si tratta solo di una cattiva traduzione italiana di una cattiva traduzione latina. Aprite la vostra Bibbia (in una buona traduzione, per favore!), e leggete nel Vangelo di Luca, capitolo 2 versetto 14: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama".

C’è un solo ricco, Gesù Cristo, e c’è una sola scelta preferenziale per i poveri, la sua incarnazione