Dal campo profughi al campo di concentramento
Il contributo di Paolo Cereda responsabile dei progetti della Caritas italiana per la regione dei Grandi Laghi

A cura di Marco Fantoni



Qualche dubbio sull’intervento umanitario come servizio e prossimità all’uomo che soffre.
Ambiguità, rischi e contraddizioni della prassi umanitaria


Ambiguità, rischi e contraddizioni della prassi umanitari

Oggi la Caritas italiana, quando si mobilita e cerca di rispondere alle crisi internazionali, le cosiddette "catastrofi umanitarie", il Kosovo, la Bosnia, il Ruanda, la Somalia, ..., è confrontata continuamente con due fatti nuovi:
a) la complessità delle situazioni: dove ogni volta si intrecciano fattori locali, regionali, internazionali, economici, identitari, culturali, commerciali - dove cioè i massacri, le deportazioni e la pulizia etnica non sono esplosioni di follia ma precise e conseguenti opzioni strategiche;
b) il riflesso "umanitario" delle opinioni pubbliche occidentali, ma anche delle nostre comunità cristiane, delle parrocchie: "Bisogna fare qualcosa. Non si può non fare nulla". Un altruismo ambiguo che, nell’azione immediata ed emotiva, nasconde talvolta l’incapacità di analizzare le radici di crisi che non sono mai improvvise e naturali -come un’eruzione vulcanica o un terremoto.

Le considerazioni esposte non possono certo essere complete ed esaustive e non rappresentano neppure il "pensiero internazionale" della Caritas italiana, sono solo il fragile frutto di cinque anni spesi in Ruanda e nella regione dei Grandi Laghi africani insieme ad altri operatori di Caritas italiana e diocesane con cui abbiamo condiviso il cammino.

Di tutti gli aspetti e le esperienze che stiamo vivendo in Ruanda - le carceri, i progetti di sviluppo e il micro-credito, la riabilitazione del sistema sanitario, i minori a rischio - vorrei concentrarmi sul dramma dei profughi, rifugiati e sfollati, che forse rappresentano oggi il paradigma umanitario per eccellenza, l’icona globale dell’esclusione.

I conflitti "a bassa intensità" che dopo il crollo del Muro di Berlino costellano - come una corona di spine - il nostro mondo globalizzato del pensiero unico hanno prodotto oggi 23 milioni di rifugiati e 30 milioni di sfollati (Fonte ONU). Negli ultimi dieci anni, più di 80 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case per consentire la costruzione di infrastrutture (dighe, strade) o lo sfruttamento del terreno (deforestazione, miniere). Fonte Banca Mondiale.

Sempre più spesso i profughi - in Ruanda come in Kenya, in Kosovo come in Bosnia, in Salvador come in Afghanistan, in Puglia come in Sicilia - vengono rinchiusi in CAMPI, che costituiscono dei microcosmi particolari, praticamente sganciati dal territorio su cui si trovano e dipendenti in tutto dall’aiuto esterno: acqua, cibo, copertine/coperte, tende, medicine, educazione, animazione, diritti umani.
L’architettura del CAMPO - uguale a se stessa in tutto il mondo - è dettata in parte dalla natura stessa dell’assistenza e dalla necessità, per il paese ospitante e per la comunità internazionale "che fornisce gli aiuti", di controllare e gestire masse sempre più grandi di persone tenute, per anni, nella condizione di im-produttività, di assistenza totale. Nei campi non si lavora, si sopravvive e si fanno le code per le distribuzioni: di cibo e medicine, di acqua e di sapone, di vestiti di seconda mano ...
Penso a campi come Benako (Tanzania) 350.000 persone, Mugunga (ex-Zaire) 250.000, Kakuma (Kenya) 70.000 persone, Kukes (Albania), Stankovic 1 (Macedonia) 17.000 persone ... Alcuni di questi campi esistono da 5 anni, altri come Kakuma diventano permanenti. Vere e proprie città senza territorio e senza lavoro, quindi senza risorse proprie. Quindi senza futuro.

Al di là delle terribili condizioni materiali dei campi in cui queste persone sono costrette a vivere - dramma che si aggiunge al dramma della perdita di tutto, casa, amici, lavoro, abitudini, della violenza vista o subita - la perversità dell’universo concentrazionario dei campi è soprattutto quella di un sistema che "gestisce l’esclusione". E cerca di farlo in modo da rendere tollerabile, digeribile, "umanitaria" la privazione della cittadinanza di umanità a milioni di persone. In continuo aumento.

Questi poveri globali e transnazionali che sono i rifugiati, sono la dimostrazione che oggi più che mai ci sono situazioni e strutture che rendono inutili certe persone

Nel CAMPO e nelle sue logiche si sperimentano architetture sociali e geopolitiche che devono in qualche modo reggere l’esclusione e la non appartenenza. Il campo DISUMANIZZA i rapporti e le relazioni. Non solo delle vittime - i profughi - tra di loro ma anche tra i rifugiati e gli operatori umanitari.

In fondo c’è il rischio che interi paesi si trasformino in grandi campi profughi, ai margini di zone economicamente utili (miniere, fabbriche, zone franche, metropoli), pieni di gente - talora intere popolazioni - esclusa, affamata, violenta e violentata che deve essere tenuta a bada da interventi umanitari, operazioni militari "giuste" o messa sotto la tutela di dittatori fantoccio mascherati da presidenti. E l’azione di aiuto si riduce a rimettere un po’ in sesto oggi persone condannate ad essere ammazzate o a morire di fame domani. Condannate comunque all’esclusione.

Il CAMPO-PROFUGHI - ma anche il Centro d’accoglienza temporanea, il campo degli zingari, il "quartiere a rischio", la baraccopertine/copoli o il carcere - diventa lo specchio di un’umanità divisa in maggioranze nazionali, cittadini dotati di diritti e garanzie formali, e in minoranze di stranieri e rifugiati illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto.
Se la comunità internazionale - attraverso Unhcr, il Wfp e le Ong - tiene in vita questi milioni di esclusi, molto poco fa per i loro diritti umani: libertà di movimento, educazione, lavoro, socialità. Insomma, per l’integrazione.

Questi poveri globali e transnazionali che sono i rifugiati, sono la dimostrazione che oggi più che mai ci sono situazioni e strutture che rendono inutili certe persone. Persone che non servono neppure come manodopera a basso costo: lte economia può crescere e funzionare anche senza il loro contributo; da qualunque lato le si consideri, per il resto della società esse non sono un beneficio ma un costo, scriveva Dahrendorf nel 1995.

L’azione umanitaria - di Stato (come l’Operazione Arcobaleno) o di base che sia - è funzionale alla logica del contenimento, ad una gestione sempre più poliziesca e carceraria della povertà, è un alibi per un impegno civile e politico che vuole capire le cause di una crisi e cercare soluzioni vere e durature di pace. L’umanitario è una risposta televisiva all’emotività di opinioni pubbliche nazionali, soprattutto nei pressi di scadenze elettorali; svolge la funzione di rendere tollerabile agli occhi dell’opinione pubblica lo spettacolo dell’esclusione planetaria. Le agenzie umanitarie rischiano di ridursi a gestire i disoccupati e i profughi del mercato globale.

Anche la Caritas deve stare a questo gioco umanitario? Deve copertine/coprire, in Italia e all’estero, l’alibi della compassione e la fine della politica? Deve mettere in scena lo spettacolo dei buoni sentimenti a scapito di un’accoglienza profonda e personale dell’Altro?


La visione umanitaria dell’Uomo: tra riduzionismo biologico e ordine vittimale

È proprio all’Altro, al suo volto - direbbe Emanuele Levinas - che la Caritas e i suoi operatori, volontari, obiettori dovrebbero prestare il maggior ascolto, cura, attenzione.
Sull’onda emotiva dell’emergenza umanitaria, l’azione d’urgenza, la velocità, la reazione rapida al soccorso sembrano imporsi senza discussione. Eppure, a conti fatti, le derrate alimentari e le scatole di medicinali date "ai profughi" portano alle estreme conseguenze le logiche disumanizzanti della cultura e della medicina moderna.

L’aiuto umanitario - nei campi come nelle mense o nei centri di prima accoglienza - non si rivolge alla persona nella sua umanità complessiva, ma al solo "essere sofferente". Al corpo, come insieme di bisogni biologici, come contenitore di un dolore immorale. "Salvare i corpi" affermava Bernard Kouchner, ex-ministro francese della sanità e dell’azione umanitaria, inventore dell’umanitario di stato: questa è la missione mondiale del medico senza frontiere; con il rischio di essere troppo occupato a riempire la bocca di riso a chi ha fame per ascoltare la bocca che parla. Sul piano intellettuale almeno, questa morale dell’estrema urgenza è anche una morale dell’estremo conforto. Ci fa stare bene, ci fa sentire belli e buoni.

Solo che, dentro questa logica, l’ascolto, la parola e lo sguardo non trovano posto tra tende, flebo, pacchi-dono e turni settimanali d’animazione. Non è previsto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona, ricevere aiuto da un’altra persona: il confronto, lo scambio, il conflitto anche il patto o l’alleanza, il negoziato.
I volontari e gli operatori sul campo sono persone piene di buona volontà che però spesso risultano fortemente ignoranti dei conflitti, della storia e della cultura - a volte anche della lingua - delle popolazioni e dei paesi in cui intervengono.
Questa ignoranza è sintomo di un’implicita presunzione nei rapporti con gli altri, con la loro identità, storia, cultura, saperi, risorse e punti di vista. L’intervento umanitario rischia di essere, nella pratica, una regressione verso le pratiche mediche e di amministrazione coloniale, quando si riduceva la distanza culturale a distanza evolutiva, e si consideravano le popolazioni locali come bambini non ancora sviluppati, bisognosi di cure e ammaestramento.

L’umanitario è una risposta televisiva all’emotività di opinioni pubbliche nazionali, soprattutto nei pressi di scadenze elettorali


Da progetti umanitari a progetti d’umanità

Dal punto di vista di noi cristiani, c’è il rischio - attraverso l’urgenza umanitaria, l’emotività della raccolta di generi di prima necessità e basta - di rimuovere o truccare l’altro, il diverso, l’escluso, il profugo: insomma, il povero. Lo abbiamo levato di mezzo socialmente, allontanato dal sagrato delle nostre Chiese, chiuso nei campi d’accoglienza o nelle carceri, e questa rimozione ci spinge a cercarlo disperatamente sotto forma di vittima da soccorrere con gli aiuti umanitari: forma assolutoria della nostra impotenza. L’Altro ritorna, nella Resurrezione contemporanea, come vittima, come sventura e sofferenza, come alibi: forma più facile e banale del farsi prossimo.

In questa fine Millennio abbiamo sperimentato come l’umanità - cioè considerare l’altro come uomo e non come oggetto del nostro odio, il nemico, oppure del nostro bisogno di identità e di carità - sia una delle cose meno scontate e acquisite.

Piuttosto che a progetti umanitari, cominciamo allora, nelle nostre Caritas, nelle nostre Parrocchie o Associazioni a pensare in termini di progetti di umanità. Non più cioè "dal salvatore alla vittima". Progetti che tentino - anche in mezzo alla guerra e alla catastrofe - di riportare a galla la dignità di chi è in mezzo alla morte, per metterlo in grado - come uomo - di ricostruire il proprio futuro, quello dei suoi figli, della sua comunità: rimettere in piedi l’uomo in ginocchio, accompagnarlo lungo il cammino di riappropriazione della sua umanità, materialmente, socialmente e psicologicamente, perché da solo non ce la fa, ma accogliendolo e trattandolo come una persona. Progetti di presenza, ascolto e mediazione. La logica dell’ascolto e della prossimità alle vittime - logica evangelica della carità - è oggi considerata dall’ONU, dopo i fallimenti umanitari dei progetti chiavi-in-mano, come il nocciolo dell’intervento di successo, come condizione irrinunciabile alla progettazione internazionale.

Ecco che i nostri centri d’ascolto, gli osservatori diocesani delle povertà e delle risorse si trovano ad essere esperienze di punta per collegare concretamente la Parrocchia con il mondo, per costruire un territorio solidale e senza frontiere, dove l’uomo possa vivere in pace.

Oggi, nel nostro paese come nel mondo, le istituzioni non sono preparate ad affrontare con questo stile, situazioni come quella della libertà di movimento delle persone, dei rifugiati, del diritto di cittadinanza, che rappresentano alcuni aspetti delle migrazioni contemporanee. Il grande assente dall’orizzonte del 2000 è proprio la politica, per cui si sostituisce l’umanitario allo stato sociale e ci si accanisce contro lo straniero perché ci si sente impotenti contro la vera criminalità organizzata.

"La Chiesa è spesso chiamata in causa dall’incalzare di povertà e malessere sociale, con il rischio di essere percepita e ridotta ad agenzia di supplenza sociale", evidenzia l’ultimo documento sulla Caritas parrocchiale. Credo che dovremo prepararci alla supplenza sociale - se non altro nel servizio alla persona - senza mai rinunciare però a chiamare ognuno alla propria responsabilità di cittadino o di amministratore della cosa pubblica. E il problema dei richiedenti asilo in Italia dimostra che la Chiesa rimane praticamente sola nell’accoglienza sulla frontiera, se si escludono le forze dell’ordine e i campi di concentramento.

Oggi, in Italia e nel mondo, la Caritas ha uno stile di servizio concreto e tempestivo, un marchio che non è confuso o associato come gadget a prodotti commerciali o a volti di personaggi famosi. Se la logica umanitaria tende a mercificare le tragedie e le sofferenze, riducendole a spettacolo televisivo di pietà e buoni sentimenti, i nostri interventi hanno almeno il merito di cercare di salvare un bambino senza dover necessariamente comprare un detersivo.

Il campo DISUMANIZZA i rapporti e le relazioni. Non solo delle vittime - i profughi - tra di loro ma anche tra i rifugiati e gli operatori umanitari