L'OPERATO della Caritas italiana nei BALCANI

A cura di Marco Fantoni



Dall’inizio della guerra nel Kosovo, molte sono state le iniziative a sostegno, principalmente da parte delle grandi organizzazioni e anche di piccoli gruppi di realtà locali.
Caritas Ticino ha, sin dall’inizio seguito l’operato e le raccomandazione della Caritas Italiana, che funge da coordinatrice delle Caritas Intenationalis in
Albania, sul comportamento da tenere in situazioni come questa. Riportiamo di seguito queste raccomandazioni ed il tipo di operato svolto, sottolineando come già da diversi anni la Caritas Italiana è presente con progetti di riabilitazione e sviluppo in collaborazione con le Caritas Nazionali e locali.

La filosofia generale di intervento nella fase di aiuto elaborata da Caritas Italiana su indicazione di Caritas Albania.

La logica di intevento è basata sull’aiuto mirato alla persone laddove si trovano e laddove riescono a trovare rifugio non necessariamente in "campi" organizzati. Si adotta il concetto di Aree di Accoglienza nelle quali si attivano tutte le iniziative che si differenzino tra loro secondo le necessità e secondo le possibilità degli operatori della Chiesa locale.
La precarietà delle situazioni, delle presenze dei profughi fa prediligere l’intervento il più flessibile possibile per essere pronti a identificare nuove necessità secondo il variare delle condizioni e del numero dei profughi.
C’è la necessità di pensare a tempi lunghi, ad una presenza Caritas che dall’aiuto d’urgenza attuale passi ad un sostegno e un accompagnamento nella vita quotidiana dei profughi fino all’auspicabile rientro.

Operativamente - in aggiunta a quanto già precedentemente indicato dall’inizio della Crisi:

Invii di beni: Si ribadisce la linea di non procedere a raccolte ed invio di beni in forma disordinata, ma di procedere solo ad assemblare, o perché raccolti o perché offerti, materiali effettivamente richiesti dall’Albania. La Caritas Italiana è in grado di fornire indicazioni precise. Si ribadisce che per il periodo di tutto maggio, in accordo con Caritas Albania, sono state individuate tre tipologie di necessità: medicinali, alimentari (a lunga conservazione), telerie (biancheria intima, lenzuola, maglie).
Per quanto riguarda i medicinali, vista la delicatezza del prodotto, la Caritas Italiana provvede all’acquisto e invio di quanto di volta in volta richiesto da Caritas Albania che è in grado di utilizzare, senza sprechi, i medicinali grazie alla sua rete di centri sanitari gestiti dalle congregazioni. Caritas Italiana può offrire alle diocesi interessate la lista dei medicinali in acquisto e il loro valore, così da rendere mirata la raccolta fondi.


La Caritas Albania nell’emergenza profughi

L’Albania conosce i primi arrivi di profughi dal Kosovo a partire dal giugno 1998. In meno di due mesi 18mila persone fuggono dai villaggi della fascia di confine in cui le forze di sicurezze serbe stavano facendo terra bruciata: per la prima volta dal 1991 il Paese si trova ad accogliere dei profughi.
La Caritas ha impostato da subito la sua azione di soccorso ai profughi orientandola alla promozione umana e allo sviluppo locale, tenendo quindi conto anche delle esigenze della poverissima popolazione albanese che si trova a "ricevere" i profughi.
Alla fine di marzo 1999, le forze di sicurezza serbe, scatenano la pulizia etnica di massa in Kosovo. Fedele alla sua presenza accanto alla gente, la Caritas albanese e i più di 200 missionari si mobilitano insieme alle comunità cristiane locali, per il soccorso dei profughi.
Attraverso l’ospitalità diretta, la gestione di centri di accoglienza in edifici pubblici, il sostegno diretto alle famiglie ospitanti, sono ormai più di 15mila i rifugiati che ricevono aiuto in modo diretto e continuativo.
Inoltre, sono almeno altri 15mila i rifugiati che ricevono da Caritas un sostegno attraverso la distribuzione di cibo e altri beni, l’assistenza sanitaria negli ambulatori, il miglioramento degli alloggi fatiscenti in cui si trovano.
Si forma così una "costellazione" di almeno 50 "aree di accoglienza" che vanno dalla casa parrocchiale o il convitto messi totalmente a disposizione dei rifugiati, a palestre, cinema, vecchi magazzini statali in cui religiosi e volontari portano cibo, copertine/coperte, medicinali e calore umano.
Nell’area nevralgica di Kukes, padre Antonio Sciarra organizza un’assistenza di strada per la primissima urgenza. Un gruppo di 30 volontari, italiani e albanesi, offrono latte e cibo caldo, teli di plastica per ripararsi dalla pioggia, copertine/coperte, attenzione e ascolto ai rifugiati che arrivano stremati dopo le vessazioni e l’interminabile coda oltre confine. I volontari Caritas organizzano nel campo degli "italiani" una scuola con maestri kosovari per 100 bambini e altri momenti di animazione. Hanno inoltre attivato un servizio sanitario coinvolgendo i medici kosovari. Tutti i giorni, alle 19, cristiani e musulmani si riuniscono per un momento di preghiera comune, leggono la Bibbia e il Corano, con canti e letture tratte dalle due tradizioni sorelle.

Sulla situazione in Jugoslavia abbiamo sentito il parere anche di chi oltre ad operare sul luogo di guerra, si preoccupano pure dell’accoglienza dei profughi in Italia. Si tratta di don Virginio Colmegna, direttore di Caritas Ambrosiana e don Battista Galli, direttore della Caritas diocesana di Como.

D: Don Virginio, una nuova situazione, chiamiamola di emergenza, di guerra in Jugoslavia, la Caritas Ambrosiana come reagisce in questo caso?
Don Virginio:
La Caritas Ambrosiana reagisce come tutte le altre Caritas, innanzitutto interrogandosi sul dramma della guerra. La guerra sta provocando una tragedia che noi viviamo con quella tragicità, non solo di vedere la popolazione dei profughi, ma i bombardamenti, il crepitio delle armi. Quindi il modo e la voglia di tornare al tavolo della trattativa della pace, con il grido lanciato anche dal Papa che diventa estremamente forte come richiamo. Tanto è vero che l'atteggiamento delle nostre Diocesi e della nostra Diocesi, è quello di aprire davvero dei varchi di speranza attraverso la modalità povera e debole della preghiera di intercessione, riuscire poi a ricostruire una sensibilità di pace, perché tra l’altro il Kosovo ci richiama a questo, che era il territorio nel quale c’era .. Con l’Associazione Madre Teresa, ma anche con altre esperienze, una straordinaria dimensione di non violenza, di attenzione profonda, di cercare di creare i legami tra la gente, di rispondere anche di fronte al conflitto bosniaco con logiche diverse. Improvvisamente c’è stata un’accelerazione del conflitto, un’esasperazione, un’aggressione serba molto forte, una radicalizzazione anche della logica della violenza come risposta, e attorno a questo, il crepitío delle armi e dei bombardamenti che aprono tragedie inumane. Noi abbiamo lanciato un appello che le istituzioni se ne facciano carico, a partire dai profughi, ma dicendo sempre no alla guerra. Secondo noi dicendo no alla guerra riapriamo la catena di solidarietà che deve cercare di creare attraverso la diplomazia internazionale, il legame dei popoli con elementi di solidarietà. Per quanto sta in noi, abbiamo lanciato un appello alla Diocesi, alle Parrocchie, alla realtà di volontariato, di fornire disponibilità perché nel quadro concordato con la prefettura e con le istituzioni, se dovesse esserci un arrivo di profughi che si aggiunge all’altra emergenza immigrazione, dobbiamo essere disponibili a creare una catena di apertura e di accoglienza. Siamo partecipi assieme a tutti i progetti della Caritas Italiana e con tutte le organizzazioni non governative a noi collegate, a intervenire anche in Albania, laddove ci sono i profughi. Stiamo richiamando anche gli obiettori di coscienza e tutta la realtà del volontariato, ad essere pronti per collaborare in termini di solidarietà. Da parte nostra avevamo un progetto in Albania in diverse zone, uno in particolare a Scutari, un giovane partirà presto e starà là assieme ad altri a sostenere il progetto di solidarietà della casa di accoglienza per persone con problemi di handicap, ma anche in questa fase a dare una mano in concreto. Quindi solidarietà, denuncia, profezia, preghiera, quotidianità.

D: Dunque, non solo lavoro nella Diocesi di Milano, ma anche alla fonte del problema.
Don Virginio:
Certo. Ma questa è una strategia. Con il mio amico don Galli, ne discutiamo spesso. Spesso ci dicono che noi siamo quelli che accolgono qui, genericamente. Noi affrontiamo il problema strutturale dell’immigrazione, il problema anche dell’emergenza, ma siamo proprio quelli che sono in frontiera su questo tipo di problema, che avvertono l’urgenza di essere presenti là, in termini certo, di sviluppo economico e di cooperazione internazionale, ma anche, che è l’altro elemento importante, in termini di sviluppo di possibilità di rientro e di creare delle condizioni perché non possono uscirne. In questo senso stiamo lavorando in Albania e nel resto dell’Europa. Bisogna intervenire nei paesi, e i primi che stanno operando sono proprio quelli che avvertono maggiormente l’accoglienza e la drammaticità, perché l’emigrazione e l’accoglienza delle persone immigrate porta dentro di sé, nel loro volto, il problema di quelli che sono qui con fatica, la possibilità del rientro. Non è mai un fenomeno allegro quello dell’immigrazione.

D: Parlando di frontiera, don Battista Galli, come reagisce la Caritas diocesana di Como.
Don Battista:
La Caritas diocesana di Como, ha, forse, il problema in modo più evidente, perché è completamente collocata in zona di confine e quindi non è un problema nuovo. Nel passato ha creato già qualche problema, anche perché sappiamo che la posizione della vicina Svizzera non è una posizione perfettamente omogenea alla nostra, quindi abbiamo non solo un’immigrazione di arrivo, ma anche un’immigrazione di ritorno. L’immigrazione di ritorno è sempre più difficile. L’abbiamo sperimentata molte volte, è faticosa, arrabbiata, delusa, amareggiata. E quindi a volte le persone si scaricano, giungono a situazioni aggravate. Sotto questo aspetto a noi il problema immigrazione, crea grossi problemi. Teniamo anche conto che Como non ha una tradizione robusta su questi problemi, per cui ci si è trovati un po’ impreparati. La Caritas non si preoccupa solo di operare, di organizzare, di fare, ma si preoccupa di promuovere una cultura dell’accoglienza. Quindi per noi la collaborazione con le istituzioni, lo stimolo, qualche volta la denuncia, è abbastanza importante, cerchiamo di farla. Qualche volta però la denuncia preferiamo che avvenga attraverso i fatti. Fatti che fanno riflettere, che obbligano ad essere coinvolti. E’ quanto è avvenuto anche a Ponte Chiasso. Ponte Chiasso, forse serve ricordarlo, perché per noi è ormai un punto fisso, un punto fermo di una qualità di accoglienza e di solidarietà che è tipicamente ecclesiale e cristiana evangelica. Quindi in quell’occasione, abbiamo avuto sotto gli occhi un’esperienza di denuncia, ben precisa, ma una denuncia fatta di solidarietà, di carità portata all’eroismo. Le istituzioni si sono sentite in qualche modo responsabili di quanto è avvenuto. La Chiesa ha avvertito a sua volta una responsabilità, a volte di testimonianza simile a quella di don Renzo, quindi è uno stimolo in positivo. Per altro verso un atteggiamento di difficoltà come per dire: la solidarietà può essere pagata cara, stiamo attenti. Domandiamoci se tocca a noi o no. Purtroppo abbiamo avuto anche reazioni di questo genere. Reazioni negative spesso anche dal punto di vista degli immigrati stessi, che in qualche modo si sono identificati in questa persona che ha colpito don Renzo. Quindi siamo in un momento anche delicato, ma certamente di maggiore consapevolezza su questi problemi, per cui anche per noi l’arrivo adesso, la prospettiva dell’arrivo dei profughi dal Kossovo, ci trova molto attenti e anche, forse, in una maggiore disponibilità di collaborazione, con una volontà nuova, di trovare forme nuove di integrazione tra il pubblico e il privato, le associazioni, la Caritas. Direi una notevole mobilitazione.


D: Al di là del problema emergenza profughi della guerra attuale in Jugoslavia, ritiene che questa situazione sarà una costante nel futuro o è proprio un’emergenza temporanea?
Don Battista:
Credo che sia ormai un dato normale. Tutti lo dicono, tutti lo confermano, non solo chi vive questi problemi ma anche una situazione mondiale internazionale, che non sembra proprio vada nella direzione di conciliare la situazione del sud del mondo, o dell’est del mondo, con il mondo occidentale. Quindi la prospettiva è che tutto continui, magari tutto si aggravi. Resta il fatto però che da parte nostra non dobbiamo rassegnarci a questi squilibri, a queste drammatiche immigrazioni, ma dobbiamo preoccuparci di capire che cosa ci insegnano, verso quale mondo dobbiamo andare. Certamente un mondo di maggiore integrazione, di maggiore pluralità culturale, religiosa e di convivenza, ma anche assumendoci le responsabilità di promuovere benessere, benessere nel senso più autentico del termine in tutto il sud del mondo, cominciando a sfruttarlo meno e a rispettare maggiormente i diritti umani ed economici.

Abbiamo ripreso pure l’opinione di don Elvio Damoli, direttore della Caritas italiana, che è stata incaricata dalle Caritas internazionali di coordinare gli interventi in Albania. Così si è espresso a proposito degli aiuti:

"Innanzitutto mettiamoci davanti alla nostra coscienza e vediamo come intervenire in aiuto, in soccorso di queste popolazioni. Noi abbiamo chiesto di non raccogliere alimentari, vestiario o altro, ma offerte in denaro, anche perché preferiamo acquistare in loco, per promuovere anche l’economia locale e il lavoro locale per quanto ci è possibile. Quello che non è possibile acquistare in loco, lo manderemo dall’Italia. Ma soprattutto, in secondo luogo, invieremo anche personale, però non chiedeteci di andare attualmente come volontari. Si andrebbe a intasare la situazione e non ad agevolarla. In terzo luogo, non possiamo dimenticare che l’appello a tutti quanti noi, è l’appello a costruire una cultura di pace".