EUTANASIA: l’illusione della buona morte
Siamo immersi in una società che ritiene la morte una devianza incurabile. L'eutanasia cerca di cancellarla, uccidendola

Di Giovanni Pellegri



Dopo la presentazione del rapporto del gruppo di esperti istituito dal Dipartimento federale di Giustizia e Polizia, che propone un allentamento parziale della punibilità di coloro che praticheranno in casi gravi l’eutanasia, è indispensabile approfondire le motivazioni che hanno portato a tale formulazione. La commissione speciale giudica l’eutanasia attiva sempre un reato, ma propone di rinunciare al perseguimento penale o ad infliggere delle pene alle persone che daranno la morte ad un malato incurabile. Lo scopertine/copo dichiarato di tale proposta è mettere fine alle sofferenze insopportabili e irrimediabili di malati terminali.

Per affrontare il discorso sulla "buona morte" è indispensabile definire cosa si intende per eutanasia, onde evitare di far impropriamente ricadere sotto questo termine altre pratiche mediche che non rientrano nel dibattito specifico. Non bisogna confondere, ad esempio, l'eutanasia con le tecniche mirate a lenire il dolore, che come effetto collaterale possono abbreviare la vita, oppure con la decisione di interrompere ogni tentativo di prolungare la vita con trattamenti terapeutici intensivi (accanimento terapeutico), resi però inutili dallo stato di salute del malato.
"Eutanasia, - come sarà intesa qui di seguito - è l’uccisione indolore, direttamente voluta e di solito medicalmente attuata, di persone ritenute come destinate ad una vita irrecuperabile inutile e/o sofferente, allo scopertine/copo di liberare la società e/o risparmiare loro ogni ulteriore sofferenza" (1). Il dibattito oggi si colloca attorno alle situazioni di malati terminali che domandano di porre fine alla loro esistenza oppure, a quelle situazioni in cui il medico ritiene "un atto saggio" somministrare un’iniezione letale a malati terminali già prossimi alla morte. In ambedue i casi, il malato si sta trascinando in una vita segnata dalla malattia e dalla sofferenza, senza alcuna speranza di miglioramento.


Un secolo di dibattito

È ben noto che l’eutanasia non è un fenomeno nuovo. Dall’antica Grecia fino all’impero Romano ma anche in tempi più recenti, in varie culture ed epoche storiche, si è praticata l’eliminazione selettiva di anziani, neonati deformi, malati o pazzi. La pratica dell’eutanasia fu anche attuata come preciso programma politico dal Nazismo che, tra il ’39 e il ’41, eliminò 70’000 "esistenze prive di valore vitale" (malati psichici, infermi e andicappati), come scritto negli atti del processo di Norimberga. Queste uccisioni elaborate a tavolino si aggiunsero ai milioni di morti dei campi di concentramento.
Sarebbe improprio accostare l’attuale dibattito sull’eutanasia ai progetti nazisti, o ad altre pratiche attuate precedentemente da civiltà lontane nel tempo. Le motivazioni presentate oggi per una legittimazione di questa pratica, sebbene abbiano in comune l’obiettivo di sopprimere vite prive di significato, non si rifanno in nessun modo al folle progetto politico dei nazisti e ogni accostamento indebito porterebbe a delle conclusioni sbagliate.
Al centro del dibattito sull’eutanasia bisogna invece mettere l'attuale contesto culturale da cui scaturisce la domanda per una sua legittimazione. In questo senso il dibattito sull’eutanasia presenta delle caratteristiche storiche nuove.
Dal punto di vista geografico, le rivendicazioni nascono esclusivamente dai paesi industrializzati. Le prime richieste di una legalizzazione dell’eutanasia sono nate negli USA (1903), in Germania (1903) e Inghilterra (1936), seguiti da tanti altri paesi occidentali. In Svizzera i primi tentativi per autorizzare l'eutanasia datano degli anni settanta. In questi paesi oggi la cura dei morenti è presa a carico da strutture sanitarie qualificate e il trattamento del dolore riceve cure adeguate.


L’amore che uccide

L’humus culturale è quindi quello della società tecnologica, che affonda le sue radici in una concezione di uomo che proclama l'individualismo come valore inalienabile. È un'antropologia che definisce i valori in funzione della razionalità e dell’efficienza. L’avere (materialismo) e il piacere (edonismo) sono lo scopertine/copo della realizzazione del singolo che deve affermarsi ad ogni costo. Le meraviglie della tecnica illudono l’uomo che la propria vita gli appartenga e che di conseguenza possa decidere "come e quando" nascere (diagnosi genetiche prenatali, anticoncezionali e aborto) e "come e quando" morire (eutanasia). Il corollario di questa visione antropologica è immediato: la vita di un infermo, di un malato o di un anziano perdono di significato. La morte naturale diviene uno smacco inammissibile.
"Al giorno d’oggi non è normale essere morti ... è un’anomalia impensabile ... La morte è una delinquenza è una devianza incurabile" (2). La morte è divenuta innominabile, è divenuta tabù, ai bambini oggi si parla apertamente di educazione sessuale, ma non più di morte. Gli adulti ne parlano sottovoce, le persone muoiono sole, gli ospedali si occupano del morire e le agenzie funebri del morto.
In questo preciso contesto nasce il fenomeno eutanasia, come espressione eloquente dell’attuale situazione culturale e sociale dei paesi industrializzati. L’eutanasia aggiunge l’elemento mancante per avere l’illusione di controllare totalmente la propria vita: la morte non è più quel ladro che viene di notte, ma è una trattamento scientifico pianificato dal malato e dal medico. Uccidendosi, la morte è cancellata.
È interessante notare che la domanda di una legalizzazione dell’eutanasia nasce proprio nel momento storico in cui gli sforzi della medicina, nello sviluppo di terapie contro il dolore, hanno raggiunto livelli mai ottenuti in precedenza. La domanda di eutanasia cresce nei paesi in cui la pratica delle cure palliative e le tecniche delle terapie analgesiche hanno trovato lo sviluppo maggiore.
La recente pubblicazione dei dati relativi all'applicazione della legge sull’eutanasia (Death with Dignity Act) nello stato americano dell’Oregon confermano quanto detto. Contrariamente a quanto si pensa, non è la paura del dolore o il sentirsi un peso inutile per i familiari a determinare la scelta del suicidio assistito. La motivazione determinante è stata invece, la volontà di controllare il momento della propria morte.


L’eutanasia e l’aborto: espressioni di una medesima cultura

L’opinione pubblica è particolarmente sensibile ai casi pietosi presentati dai mass-media e sta gradualmente sviluppando un’immagine positiva del medico che attua per pietà, l’eliminazione del sofferente. L’eutanasia diviene sinonimo di compassione, da atto disumano si trasforma in un gesto d’amore rispettoso di una vita sofferente. Crudele e insensibile è invece colui che nega questa evidenza.
Il dibattito attuale ricalca quindi quello dell’aborto. La legalizzazione dell’aborto si è fatta strada con esempi estremi, per poi arrivare ad una formulazione di legge restrittiva che però, di fatto, si traduce con un’applicazione sistematica dell’aborto, ad ogni gravidanza non desiderata. Il famoso slogan femminista "L’utero è mio e me lo gestisco io" trova quindi una diretta applicazione anche nell’eutanasia: "la vita e la morte sono mie e me le gestisco io". Il comune denominatore delle due pratiche è il disconoscimento del valore della persona e l’affermazione di un antropologia individualistica.


Una morte degna dell’uomo

La richiesta per la legalizzazione dell’eutanasia nasce anche dal desiderio di vivere di una morte più umana. La miseria del morire negli ospedali ha di fatto relegato il malato dietro macchinari sempre più complessi e nonostante il prodigarsi di équipe mediche sempre più numerose, il malato muore immerso nella solitudine. Da qui nasce il desiderio di una morte umana o meglio, si rivendica giustamente il diritto di morire con dignità. Il substrato culturale attuale ha però trasformato questo desiderio in diritto all’eutanasia.
La richiesta di coloro che desiderano morire perché sofferenti di un male incurabile è un richiamo affinché il dramma e il mistero del nostro vivere e del nostro morire possano ricevere uno sguardo umano e solidale. La tecnica ci allevierà le sofferenze fisiche, ma non potrà donarci la compassione o dare un significato al nostro vivere. Occorre recuperare il valore della vita umana, affinché morire con dignità non significhi praticare iniezioni letali in camere asettiche lontano dagli occhi di tutti, ma terminare la propria vita accompagnati dal calore delle persone care e sostenuti dalla preziose cure che la medicina sa offrire. È forse questa la risposta che si può dare all’eutanasia.



(1) Definizione in "Non uccidere", di Lino Ciccone, capitolo "L'eutanasia" (p. 257-293) Ed Ares Milano.
(2) J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1979.