Onora il padre e la madre 2
"Onora tuo padre e tua madre, perchè si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio." Es 20,12

Di Carlo Doveri e Patrizia Solari


Nel numero 3 dello scorso anno, riportavamo in questa rivista il riassunto di alcuni contributi attorno al tema del IV comandamento, in particolare l'articolo di Julian Carron (cfr. Communio nr. 139)

L'idea fondamentale di quel testo è riassumibile in questo modo: l'onore reso ai genitori è dovuto in quanto essi sono coloro che ci trasmettono la legge.
Questo era il senso del comandamento all'interno della tradizione ebraica.

Non solo però, si tratta di rispondere ad un obbligo morale, ma nel comandamento stesso c'è l'indicazione di un beneficio, di un sovrappiù per colui che rende onore ai genitori e cioè una vita più lunga.
Potremmo liberamente, ma non senza ragione, dire che l'onore reso ai genitori rende la nostra vita più felice, migliore.

Prendiamo questo spunto biblico, e il relativo commento teologico, come un pretesto per discutere, non da teologi, della questione dei rapporti tra genitori e figli, privilegiando in questo scritto -con una partizione arbitraria- la parte relativa ai genitori. Partizione arbitraria perché non esiste un comandamento per i genitori distinto dal IV.
Non si tratta evidentemente della mancanza di una indicazione per i genitori, quasi che l'Autore del decalogo fosse un legislatore insufficiente.
Il IV comandamento è per tutti ed indica la posizione di ogni singolo per rapporto agli altri e per rapporto alla legge stessa.

Essere genitori significa quindi essere, non solo essere stati, figli.

Se il comandamento indica al figlio di onorare il genitore, questi, per quanto gli compete, deve essere degno di questo onore.
La condizione dell'onorabilità del genitore è la sua facoltà di trasmettere la legge che, presso il popolo di Israele, era la legge biblica.
La legge però non si trasmette compiutamente se non rispettandola.
Il rispetto di questa norma è fonte di beneficio, parola che possiamo sostituire con felicità, ricchezza, soddisfazione...
(... perché si prolunghino i tuoi giorni...).

Un genitore poco capace di questo rispetto genera figli che non lo... rispetteranno.
La responsabilità del genitore è quindi grande e le conseguenze del suo agire ingenti, sia per rapporto a se stesso: la perdita del rispetto, sia per il figlio: la perdita della felicità.

La responsabilità è grande anche perché il bambino è naturalmente favorito nell'osservanza della legge. Egli conosce perfettamente che l'onore reso ai genitori genera felicità.
E' l'unico corredo con il quale nasce: il fatto cioè di conoscere che la fonte della sua felicità è nel rapporto con un altro.
Constatiamo infatti che il bambino, fino ad una certa età, non è inibito nel domandare. Anzi, il suo vivere è continua domanda di soddisfazione per mezzo di un altro, non fosse che la richiesta di cibo per mezzo del pianto.

Ma proprio questo è il senso della legge: non si dà soddisfazione, felicità, salvezza se non per mezzo di un altro ("Senza di me non potete fare nulla"). E questa è anche la spiegazione del fatto che il comandamento sia uno solo: la legge è una sola e del fatto che, di fronte alla legge, siamo tutti figli.

A questo punto la domanda è chi sia il padre. L'affronto di questo tema è rimandato ad un prossimo articolo.